La cosa più Bauhaus (perché, inutile nasconderlo, era “quello” che tutti cercavamo qui dentro) era Never Man, la lugubre ballata che chiudeva la prima facciata del debutto in solitario di Peter Murphy. Spettrale seguito della cadaverica Hollow Hills e del secondo movimento di The Three Shadows, con la voce tenebrosa di Peter che tornava a dominare tutto, profilo di pipistrello su una terrazza illuminata da un sottile filo argenteo di luna. Con tutto il resto i Bauhaus non c’entravano nulla. E davvero, tranne per noi orfani, non c’era motivo che c’entrasse qualcosa. Should the World Fail to Fall Apart è un disco che si stacca dal passato ingombrante dell’uomo-pipistrello, adottando soluzioni inedite (vedi l’ impiego dell’ armonica a bocca, ad esempio, uno degli strumenti meno usati in ambito post-punk) e atmosfere più ottimiste. Un disco che, nella sua scelta di affrancarsi da un immaginario così fortemente caratterizzante come quello dei Bauhaus finisce per non avere una sua identità risolta, complici certe soluzioni sonore che invecchieranno precocemente come l’epoca sintetica che le aveva generate (si ascoltino a mo’ di esempio la terribile accozzaglia di suoni elettronici dei funky fin troppo esuberanti della title-track o di Blue Heart). Un miscuglio dove ci si può imbattere indifferentemente nei Simple Minds, negli ABC, nei Japan, nel Bowie “Chic” di Let’ s Dance e nei Dali‘s Car che, si capisce a quel punto, erano stati ben più di una semplice appendice nella carriera di Peter. Enfasi ritmiche e pomposità vocali profuse a iosa, come le esse di questa frase. E tanti suoni di plastica a soffocare Peter Murphy, Daniel Ash, i Magazine, i Pere Ubu. Peter è uno che sa come farsi odiare. Io pure. Dio maledica le drum machines e gli abiti di Kool and The Gang. (Franco Dimauro)
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