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(Ri)visti in TV: La notte brava del soldato Jonathan di Don Siegel (1971)

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Dopo quasi venticinque anni di più che onesta carriera – passata saltando con maestria da un genere cinematografico all’altro – l’opera di Donald Siegel attira su di sé gli strali della gran parte della società americana non già per l’estrema violenza delle scene in essa contenute quanto per la presunta esaltazione delle brutali procedure messe in atto dalla polizia, di certo non “ortodosse” rispetto a quelle codificate dalle norme. Siamo nel 1971 e ha visto la luce “Dirty Harry” primo tassello della trilogia che vede protagonista il controverso Ispettore Callaghan (in Italia, infatti, prenderà il titolo di “Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo”) a cui seguiranno “Magnum Force” (1973) di Ted Post e “The Enforcer” (1976) di James Fargo. Il film – un noir cupissimo che, per l’indiscutibile merito del suo autore, combacia perfettamente con la cruda estetica iper-realista della cinematografia degli anni ‘70 – diventa un caso politico negli U.S.A. e in quasi tutti i paesi in cui viene proiettato scoraggiando il regista di Chicago dall’idea di dirigere gli episodi successivi nonostante l’eccellente risultato raggiunto al box–office. Nello stesso anno esce sugli schermi quella che Don Siegel reputava fosse la sua opera più convincente: “La notte brava del soldato Jonathan” (The Beguiled, ovvero l’ingannato, è il titolo originale), in onda venerdi alle 2,15 su Rai Movie. Il regista s’affida ad alcuni fra coloro che lo hanno coadiuvato anche in “Dirty Harry”: Bruce Surtees per la fotografia, Lalo Schifrin per la musica e il fidato Carl Pingitore che gestisce la fase del montaggio, uno degli elementi più curati e convincenti dei lavori di questo autore. Ancora una volta protagonista è la sfingea imperturbabilità del volto di Clint Eastwood (già ne “Ispettore Callaghan:…” introversa maschera da tragedia greca di solitario anti-eroe) che interpreta al meglio delle proprie possibilità la parte del caporale nordista Jonathan che, ferito ad un gamba, viene trovato in fin di vita in un bosco dalla ragazzina Amy che, andata a cercar funghi, lo trascina nel collegio femminile in cui vive. Le donne che popolano questo luogo, compresa l’austera direttrice Martha, nella segreta speranza che il soldato le ricambi con altrettanto affetto, lo confortano e lo curano fino al momento in cui, però, per motivi di bieca gelosia (Jonathan si concede in maniera cinica e spudorata a tutte) ciascuna all’insaputa dell’altra, decidono di vendicarsi: la diciasettenne Carol lo fa cadere dalle scale, Martha gli fa amputare la gamba e, durante il pranzo di (ipocrita) riconciliazione, viene avvelenato dai funghi raccolti dalla piccola Amy…Don Siegel mette in scena una sorta di favola dark, irriducibilmente crudele, che non teme di straniare lo spettatore utilizzando (ancora una volta) le tecniche comuni al linguaggio del noir. Tra frequenti, quanto narrativamente ingiustificati, flashback e dissolvenze sfuggenti, tra “ralenti” fuori norma e “fondu” in chiusura, disseminati a caso nel corso dell’azione (comparsa repentina, cioè, della prima immagine di una nuova sequenza prima che termini l’ultima immagine della sequenza precedente mediante un complesso procedimento di riavvolgimento e sovrapposizione della pellicola) l’autore rappresenta in chiave “gotica” una realtà di brutale efferatezza in cui gli esseri umani appaiono monadi isolate, incapaci di comunicare, destinati alla distruzione e, soprattutto, eticamente corrotti. I maschi (personificati dal “solo” Jonathan quasi ad individuare una simbolica monodimensionalità comportamentale) sono inetti e vili, fingono di amare (concedendosi a più donne) solo per meschino ed egoistico tornaconto. Le donne, al contrario, hanno una maggiore complessità psicologica (nel film, infatti, vengono rappresentati caratteri estremamente variegati) che si esplica, però, nella capacità più forte di concepire e compiere il male simulando innocenza: ciascuna di esse, infatti, pianifica e mette in atto la propria vendetta quando raggiunge la consapevolezza di non poter avere “soltanto per sè” l’oggetto del desiderio. Al contempo, dunque, e in maniera egualmente convincente, “j’accuse” anti-maschilista e delirio misogino ma, soprattutto, un incubo nichilista sapientemente costruito da un Donald Siegel all’acme dei propri mezzi espressivi, da cui è possibile estrarre i segni di un apologo beffardo su un’umanità senza alcuna possibilità di salvezza. (Nicola Pice)

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