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Dakota Suite – An Almost Silent Life (2012)

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Atmosfere brumose e invernali, con il gelido vento del Nord che spira tra gli alberi e agita il mare, continuano ad essere il climax espressivo (che si respira pure sfogliando il booklet interno al CD) dei Dakota Suite, oramai divenuti una delle formazioni di punta della Glitterhouse Records, magnifica realtà indipendente e mai sufficientemente lodata etichetta di alt-rock e alt-country. La formazione inglese però nel corso degli anni, è andata via via depauperando le “good vibration” che aveva suscitato tra gli esordi (1998), i primi anni del nuovo millennio e il lampo di “The End Of Trying” del 2009. L’album, sofferto e a lungo meditato dal leader della formazione Chris Hooson, segue sostanzialmente un trittico composto dal già citato “The End of Trying”, “The North Green Down” e “The Side of Her Inexhaustible Heart” (ma tra questi, in tre anni, Chris ha inciso altri tasselli discografici: “The Night Just Keeps Coming In”, “Valissa” e “The Hearts Of Empty”). Tanta prolificità indubbiamente, che può anche nuocere in termini di giudizio complessivo, ma anche l’esigenza sentita da parte del band-leader (che cita Tom Waits, Bill Evans, Arvo Part e John Coltrane tra le sue fonti ispiratrici) di una ripartenza, dopo alcuni anni punteggiati da collaborazioni con i vari David Darling, Emanuele Errante, Quentin Sirjacq, Machinefabriek e Nils Frahm, utili alla causa ma effettivamente dispersive, mescolando folk, soul & jazz. E questo è il primo disco (pure) sostanzialmente vocale, concepito per una band, da cinque anni a questa parte. Non è certamente all’altezza del folgorante “This River Only Brings Poison” del 2002, va detto, in cui Hooson flirtava con il geniale intimismo dei vari Nick Drake e Tim Buckley. Il nostro si è smarrito tra i rivoli di un contorcimento pensoso e filosofico, in una sublimazione egocentrica del proprio pensiero, che ha pochissimo da condividere con gli slanci universali della musica. Riflessioni e struggimenti personali (indotti anche da problematiche familiari), un isolamento cosmico cui si è relegato sono serviti a stimolare l’ispirazione per le nuove canzoni, e l’empatia con un nuovo (auspicato) corso. Sembra d’essere dinanzi a un disegno onirico, a un esercizio catartico, in cui si fa largo la vena pessimista. Peccato perchè non tutto è da bocciare o prendere con le molle, alcuni pezzi sono assai interessanti. “Wanneer De Pijn Ons Doet Scheiden” è un coinvolgente strumentale, altri brani sono bozzetti sonori carichi di pathos meditativo (“If You’ve Never Had To Run Away”), alcuni invece inni minimalisti (“The Last Flare Of A Desperate Shipwreck”, “The Last Flare Of A Desperate Shipwreck”), piccoli gesti poetici dove le parole sovente sono appena sussurrate. Alla base di tutto c’è una volontà di superamento della struttura cui si è ricondotta (e ristagna) la band e che ha impedito – a giudizio di Hooson – uno sviluppo delle direttrici musicali verso nuovi lidi. In realtà quelle che emergono all’ascolto sono versioni scarne ed essenziali, idonee ad essere oggetto di performance solitarie voce & chitarra, senza nessun tipo di sovrastruttura (elettroniche anzitutto): un modo questo di andare direttamente al nocciolo dell’idea di base, così com’è stata concepita. Così alla resa dei conti il cuore della poetica di Chris diventa ancora più sospeso, lo spleen nordico ancora più angusto. L’album è stato concepito e realizzato tra Parigi, Leeds, Nashville, Osaka e Stoccolma, assieme al fido David Buxton, con il contributo di un numero considerevole di ospiti. Le foto del libretto interno sono opera di Johanna, moglie di Chris e musa ispiratrice per le sue canzoni. (Luigi Lozzi)

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