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Lolita di Stanley Kubrick (1962)

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Le difficoltà incontrate per la realizzazione di “Spartacus” modificano radicalmente l’approccio kubrickiano alla “cosa filmica” perché da qual momento in poi il regista decide che avrebbe cercato sempre e comunque il controllo assoluto su ogni progetto cinematografico: l’elaborazione della sceneggiatura, la scelta degli interpreti, le fasi produttive…ogni singolo dettaglio avrebbe dovuto ottenere la sua approvazione. Paradossalmente, ma fino a un certo punto, però, gli sforzi ed i problemi a cui il regista ed il fidato Bob Harris andranno incontro per la trasposizione della “Lolita” nabokoviana saranno ancora più grandi. Per acquistare i diritti cinematografici del libro Kubrick è costretto a cedere alla United Artists quelli di “Rapina a mano armata” (e la cosa non gli andò mai giù perché egli amava molto quel film). Nabokov, inoltre, dapprima rifiutò di redigere la sceneggiatura ma, quando il regista respinse il copione scritto da Willingham, acconsentì ad elaborarne due differenti a cui furono apportate, comunque all’insaputa dello scrittore, diverse manipolazioni per aggirare la mannaia censoria hollywoodiana. L’individuazione di protagonisti credibili fu lunga e travagliata: dopo i rifiuti di Laurence Olivier, David Niven e Marlon Brando (che ricevettero pressioni per evitare la partecipazione ad un film così scabroso) James Mason accettò su invito (sembra) dello stesso Nabokov. I problemi finanziari furono una costante che determinò una sostanziosa contrazione dei giorni di ripresa e, nonostante il film fu girato in quell’Inghilterra che consentiva ai produttori stranieri cospicue detrazioni fiscali, Kubrick sforò il budget di più del doppio di quanto gli fosse stato messo a disposizione dalla MGM. Alcuni tagli – in sede di montaggio – furono imposti all’autore obtorto collo, compresa la famosa dissolvenza nella scena in cui Lolita propone al professore di “fare un gioco”. Le polemiche sulle interpolazioni allo script originale furono molto accese nonostante Nabokov avesse riconosciuto la maestria registica di Kubrick. Eppure – tribolazioni a parte – a dispetto di tutti coloro che ritennero e pensano – ancor oggi – che non sia un’opera completamente riuscita…”Lolita” è e rimane un film straordinario. Una tragedia elegante e gelida ammantata di sarcasmo “nero” in cui lo sguardo moralista e cupo del suo autore sferza senza alcuna pietà il perbenismo ipocrita della società americana che ammette lo scambio di coppie e le pratiche sessuali più stravaganti confinandole, però, nell’ambiguo terreno del privato e in cui viene grottescamente rappresentata la crisi irreversibile del modello familiare tradizionale con l’artificio freudiano del morboso triangolo in cui ciascun componente (padre-madre-figlia l’uno amante dell’altro) è in competizione per la definizione di un ruolo di priorità (non solo) erotica nell’ambito del nucleo stesso. Nonostante qualche discontinuità strutturale e alcune incongruenze che rimangono (forse volutamente) irrisolte, l’arte di Kubrick non ha cedimenti: sono presenti gli ossessivi temi (ricorrenti) dello sguardo fisso (Lolita che osserva Humbert in giardino e quest’ultimo che fissa la foto di lei mentre abbraccia la madre), del carrello all’indietro (la ripresa del corridoio dell’ospedale, la scena dell’omicidio della madre di Lolita), dei giochi (il ping-pong, gli amati scacchi, l’hula hoop), del travestimento, del ballo (sempre il valzer), dell’accidente/incidente tecnologico, della colpa e degli effetti che essa determina frammisti all’illogicità del caso. Anche in “Lolita” Kubrick utilizza la voce fuoricampo per commentare i flashback di cui dissemina il film e contrappunta gli stati psicologici dei personaggi con un commento musicale dal tono completamente differente (effetto straniazione) ma dall’intensità del suono molto forte. Il film, intriso di un profondo simbolismo sin già nel nome degli oggetti, dei personaggi (il campeggio femminile si chiama Climax, il proprietario dello squallido motel Swine=porco, lo psicologo della scuola Cuddler=colui che fa le coccole) e dei colori (prima che Lolita e Humbert facciano l’amore indossano abiti chiari o vivaci, dopo… scuri), è costruito come un noir espressionista (le gradazioni luminose virate sullo scuro, gli omicidi commessi, il senso della morte incombente) ma è essenzialmente un apologo sulla valenza distruttiva dei sentimenti umani e dell’amore in particolare (che non salva semmai umilia e sprofonda nell’abiezione morale) e sulla conflittualità irreversibile d’una natura umana così implacabilmente ferina che nessuna sovrastruttura sociale o sistema ordinato di regole può modificare. Kubrick ha iniziato a costruire un apparato speculativo di gigantesche proporzioni nichiliste. Da questo momento in poi (e a partire da “Il dottor Stranamore” più compiutamente) ogni suo film è un tassello nella definizione di quel sistema.(Nicola Pice)

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