Nel 1995 l’ego e le ambizioni di Billy Corgan si fanno così smisurati che per contenerli non basta più un solo disco. Neppure se doppio, come era stato per Siamese Dream. Mellon Collie and the Infinite Sadness esce in formato triplo. Come Sandinista! O, paragone più pertinente, YesSongs. Mellon Collie and the Infinite Sadness è il disco che cristallizza il movimento grunge ergendone il suo mausoleo più appariscente e sfarzoso. Un maestoso, ridondante, sontuoso monumento funebre che si richiude sulla più importante rivoluzione musicale del dopo-punk. Mellon Collie and the Infinite Sadness apre le sue enormi fauci planetarie divorando tutto quello che dal grunge era stato masticato: hard-rock (Where boys fear to tread), prog (Thru the eyes of Ruby), punk, industrial (Tales from a scorched earth), imperturbabilità glam (Love), tenerezza new-wave (1979), shoegaze (Bodies), Velvet Underground, Gary Numan, Beatles, Black Sabbath, Stooges, Cure (prego ascoltare i violini di Coup De Locke) e risputandolo tra le stelle. Per sempre. C’è un romanticismo così teatrale ed assoluto, così crepuscolare e invasivo, così decadente e lezioso da risultare rivoltante, un viaggio eroico dall’alba all’imbrunire e dal crepuscolo alla luce stellare dove l’unico universo da esplorare è quello che è imprigionato dalla nostra stessa epidermide, un’epopea interiore che ci spinge oltre la soglia del dolore (In the arms of sleep) e dell’ estasi (Tonight, Tonight). Corgan, prima di diventare l’ uomo più odioso del pianeta, ci porge il suo barattolo di miele. Perché noi si resti appiccicati. Noi, piccole mosche ignare di svolazzare dentro un vasetto di morte. Lui, enorme ragno dal viso d’ argento. Ventre deserto, come il suo cuore. L’ ultima opera rock necessaria. (Franco Dimauro)
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