L’importanza di Dario Argento per la crescita “autorale” prima del thriller e poi dell’horror italiano non solo è pari ai grandi pionieri nostrani degli anni ’50 e ’60 – Mario Bava, Riccardo Freda e Antonio Margheriti in particolare – ma probabilmente superiore se solo dovessimo pensare al culto che continuano a tributargli molti registi contemporanei del calibro di Tarantino, Raimi, Carpenter che lo hanno scopiazzato a man bassa. Il flop de “Le cinque giornate”, sorta di peplum risorgimentale postmoderno dotato di surreale comicità, spinge Argento a ritornare al giallo affidandosi alla penna di Bernardino Zapponi, già coautore di Federico Fellini in una sorta di remake de “L’uccello dalle piume di cristallo” che lo aveva consacrato al successo del grande pubblico e che aveva rappresentato il punto di partenza della fortunatissima “trilogia animale” (il cui capitolo più riuscito era stato il conclusivo acclamatissimo “Quattro mosche di velluto grigio”). “Profondo rosso” sarà il film argentiano a denominazione di origine controllata, il film della vita, certamente quello più popolare (o, più probabilmente, quello migliore? Disputa sempre aperta fra i fans dell’autore romano). Come già nelle produzioni precedenti emergono le straordinarie qualità tecniche del regista: un montaggio sperimentale che rimanda alla nouvelle vague e che anticipa e prepara la scena successiva, gli eleganti movimenti della macchina da presa (indimenticabile la carrellata nel corridoio della casa della medium), l’utilizzo maniacale della “soggettiva” che mediante sconvolgenti ingrandimenti consente allo spettatore una visione intra-filmica (gli occhi dello spettatore, dunque, finiscono per identificarsi con quelli dell’assassino), la raffinata fotografia di Luigi Kuveiller che alternativamente “oscura” e “illumina” ad arte l’intero film, il gusto per dettagli apparentemente insignificanti ispirati al gotico germanico, la capacità di riprendere le architetture metropolitane influenzata dall’espressionismo del cinema di Fritz Lang che raffigura un irreale deserto metropolitano in cui i personaggi galleggiano sospesi nell’attesa dell’evento delittuoso. Se nella trilogia, però, l’obiettivo del maestro era hitchcockianamente la tensione emotiva, qui è l’incubo in cui si sprofonda, la paura che ci avvolge in una perfetta alchimia tra immagini e colonna sonora. Contravvenendo alla logica della “plausibilità matematica” del giallo, Dario Argento sembra occuparsi più del dettaglio che dell’insieme ben sapendo che è il particolare a imprimersi nel subcosciente dello spettatore che attinge da un ambito ancestralmente primitivo (quello delle pulsioni) non mediato da elementi razionali. I delitti, pertanto, sembrano dei micro-film a sé stanti in cui quello che più conta è la rappresentazione efferata della violenza e non degli elementi utili alla ricostruzione delle motivazioni del delitto stesso e, dunque, alla individuazione del colpevole. Nonostante il plot sia ascrivibile al thriller, dunque, “Profondo rosso” (magnifico titolo che espressionisticamente rimanda ad un assoluto grand-guignol) è “prove tecniche” di Argento verso il delirio horror, nel fantastico puro. Un capolavoro che alla perfezione e pulizia visiva aggiunge la qualità eccellente della colonna sonora. Abbandonate, infatti, le sperimentazioni elettroniche di Morricone, la musica composta dal jazzista Giorgio Gaslini (che al regista romano inizialmente non piacque molto) viene in parte riscritta ed arrangiata con atmosfere gotiche dal gruppo di rock-progressive Goblin. (Nicola Pice)
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