La prima riflessione che mi suscita il rigirarmi tra le mani il nuovo disco di Lucy Kaplansky, e sfogliare il booklet interno, è che, in un’epoca in cui così velocemente hanno preso il sopravvento, a livello di comunicazione e attualizzazione, i social network, diventano quanto mai evocative e vintage immagini (relativamente) recenti d’inizio Settanta, con cui Lucy adorna il suo album, quando, in precedenza, in ambito musicale, si affidava a fotografie più datate nel tempo il messaggio sul legame con le proprie radici culturali e musicali. Lucy Kaplansky è una folk singer proveniente da Chicago, da molti anni stabilitasi a New York per inseguire i propri sogni: prima il Ph.D. come psicologa clinica, poi pronta ad abbandonare una carriera medica già avviata per dedicarsi a tempo pieno a quella di cantautrice, scegliendo come base il circuito folk del Greenwich Village. Cresciuta artisticamente negli anni Ottanta assieme a gente del calibro di Suzanne Vega, John Gorka, Cliff Eberhardt, Nanci Griffith e Shawn Colvin, a Lucy venivano riconosciute all’epoca qualità vocali cristalline ed una magnifica attitudine per l’armonia. Ha collaborato a “Lone Star State of Mind” e “Little Love Affairs” della Griffith, e si è esibita in duo con Colvin nei club della Grande Mela, e quando è stata corteggiata dalle major ha declinato le offerte, e mentre Shawn andava a incidere tre album per la Columbia Lucy ha fatto un passo indietro per conseguire l’ambito dottorato. Ha preso parte a due diversi progetti: “Cry Cry Cry” con Dar Williams e Richard Shindell, e “Red Horse” con Gorka e Eliza Gilkyson e tra le sue altre collaborazioni segnaliamo anche quella con Suzanne Vega per il brano presente nella colonna sonora di “Bella in rosa/Pretty in Pink” e quella con la Griffith per il pezzo in “Il socio/The Firm” di Sidney Pollack, inoltre è suo il commercial (“The Heartbeat of America”) legato alla promozione della Chevrolet. L’album d’esordio, The Tide, arriva solo nel 1994; sette album all’attivo tutti incisi per la Red House Records, tra il 96 e il 2001 le cose più interessanti (”Flesh and Bone“, “Ten Year Night“, “Every Single Day“) ed eccoci al nuovo lavoro che giunge a due anni dall’ultimo. “Reunion” è il migliore degli album finora realizzati, personale, onesto ed intimo, frutto di una scrittura di gran mestiere e di collaudata padronanza della propria vocalità. La Kaplansky non è certamente una di quelle cantautrici che potremmo definire ‘famose’, pur provenendo dalla stessa scena musicale cui hanno fatto (e fanno tuttora) parte i su menzionati Shawn Colvin, John Gorka o Suzanne Vega per esempio. Le liriche (poetiche) tutte scritte in compagnia del marito, Richard Litvin, sono incentrate sul nocciolo della famiglia, su amori parentali e longevità dei rapporti. “Mother’s Day”, ad esempio, descrive la relazione con la propria figlia resa possibile da un’altra madre e da un’altra relazione affettiva. La chitarra acustica è suonata da Kevin Barry mentre John Gorka contribuisce con il supporto vocale. La title-track è il clou del disco a raccontare una storica riunione di famiglia a Toronto nel 1971, intorno alla matriarca di famiglia, quando Lucy aveva solo 11 anni. La stessa copertina raffigura la panetteria della nonna a Toronto e all’interno foto di famiglia e ritratti. Vicende raccontate in musica e liriche, in piccoli bozzetti poetici, apparentemente private, sono invece storie che appartengo e sono comuni a molti; madri e padri, fratelli e sorelle, figli e nonni, sulla memoria che ognuno ha del proprio passato familiare. L’iniziale “Scavenger” illumina sulle tematiche affrontate; potrebbe essere il punto di vista di una persona lontana da casa e dagli affetti più cari, che cerca la sua strada da sola; oppure quello di una persona che ha scelto il suo posto nella vita ma che è consapevole di quanto siano influenti e formative le relazioni familiari: “You may walk yourself alone/Through the hills of the night/But you’ll walk with the ones you love/In the valley of your life/You’ll always stand with the ones you keep/In the valley of your life”. “I’ll See You Again”, addirittura, evoca il pezzo omonimo scritto da Noel Coward che la mamma cantava per ricordare il marito scomparso anni addietro e che decenni dopo la stessa Lucy dedica alla madre morente: “Though the years my tears may dry, I shall love you till I die, goodbye”. Particolarmente indovinata in questo contesto la cover di “This Morning I Was Born Again” di Woody Guthrie. Quasi in chiusura ecco “I’m Looking Through You” dei Beatles (presente su “Rubber Soul”) e ricordiamo che Lucy già aveva inciso un brano dei Fab-Four, “I’ve Just Seen a Face”. Tra i musicisti che hanno collaborato in evidenza Duke Levine alle prese con un numero consistente di strumenti, dal mandolino al bouzouki, dalla chitarra elettrica al banjo e al dulcimer. (Luigi Lozzi)
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