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Simon & Garfunkel – Sounds of Silence (1966)

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Schiacciato da un concerto al Central Park più grande del mondo stesso. Eppure Sounds of Silence è ancora lì, fragile e croccante come una foglia d’ autunno. La faccia pulita degli anni Sessanta. A chi possono fare paura due che si fanno chiamare Tom & Jerry? Borghese e garbato, il folk-rock di Simon & Garfunkel arriva senza voler uccidere nessuno. Senza nessuna targhetta politica appiccicata sulle chitarre. È un truciolo di legno che si stacca dal tronco robusto della canzone di protesta americana, un carezzevole abbraccio che ti accoglie quando hai paura delle ombre, il più delle volte accartocciato su se stesso, con le ginocchia che toccano il petto come dentro un poema suicida di Leonard Cohen (Kathy‘s Song, Homeward Bound, April Come she will), altre volte appeso all’uncino del fingerpickin’ di Davey Graham (Angie e la sua metamorfosi in Somewhere they can‘t find me), disteso sul tappeto raga dei Byrds (Blessed) o sui copridivani di Dylan (Leaves that are green). Capace di trasformarsi in un sordinato beat da fare invidia ai Monkees e agli Zombies (Richard Cory, I am a rock ma soprattutto We‘ve got a groovey thing goin’). Maturato nella consapevolezza tenace di aver scritto una delle più belle canzoni del secolo (The sounds of silence) e nell’attesa cosciente e ambiziosa che il mondo prima o poi dovrà fare i conti col silenzio, nonostante tutti si sforzino di fare rumore per tentare di soffocare quell’eco dove è solo il nostro cuore e il nostro respiro a misurare l’affanno del mondo. (Franco Dimauro)

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