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The Seeds – S.T. (1966)

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La recente acquisizione del catalogo Crescendo dei Seeds da parte dell’agguerrita Big Beat trova compiutezza e battesimo con la ricca ristampa dell’omonimo album della band californiana che ci impone di riaccendere i riflettori su una delle icone della accelerazione sociale del movimento psichedelico americano. Siamo nel 1965: la rivoluzione musicale e culturale esportata dai Beatles costringe le etichette discografiche a un radicale cambiamento, pena l’esclusione da un mercato che ha fame di musica giovane e selvaggia. Gene Norman è un impresario jazz di Hollywood che organizza concerti e che ha messo in piedi un’etichetta dedicata alla sua musica preferita ma che non disdegna qualche puntatina nelle colonne sonore e nella surf music, la teen-music dell’epoca pre-Beatles. La nuova ondata beat gli impone però, pena la totale esclusione dal mercato, di assicurarsi i servigi di qualche nuova band di capelloni che garantisca visibilità e sopravvivenza alla sua etichetta, la GNP Crescendo. Tra i primi nomi a finire sotto contratto ci sono i Lyrics, gli Other Half, i Trippers e i Seeds, la nuova band di Richie Marsh, uno scansafatiche arrivato a Los Angeles da Salt Lake City nei primi anni Sessanta e che sbarca il lunario facendo qualche serata con un repertorio di canzoncine che qualcuno si è pure preso la briga di stampare su alcuni 45 giri che, all’ epoca del contratto con la Crescendo, giacciono già da anni tra gli invenduti dei distributori. A cambiare il corso degli eventi e il suo approccio alla musica sono da un lato la folgorazione per il suono dei Rolling Stones e dall’altra l’incontro con il chitarrista Buck Reeder ribattezatosi Jan Savage in omaggio alle sue origini pellirossa (poserà infatti in costume indiano sulla copertina dell’ album). È il sodalizio con Jan a convincere Richie a tirarsi fuori dalla sua nuova band, gli Amoeba, per tentare qualcosa di nuovo. A bordo della neonata scialuppa Seeds salgono altri due fuggiaschi ovvero Daryl Hooper e Rick Andridge provenienti entrambi da Farmington. Richie (nel frattempo ribattezzatosi Sky Saxon), nonostante gli evidenti limiti vocali e tecnici viene scelto come bassista e cantante. Non rinuncerà di fatto mai al primo ruolo pur costringendo la band di volta in volta a ricorrere a dei session men o a sopperire alla loro assenza con delle linee di tastiera (come quelle presenti su Evil Hoodoo e Fallin’ in love) inaugurando uno stile che farà la fortuna dei Doors solo un paio di anni più tardi. Si conquisterà invece la stima dei compagni, nonostante la striminzita gamma modulare delle sue corde vocali, col secondo dei due incarichi in virtù di una disarmante carica erotica e di una inarrestabile ed estenuante capacità di blaterare parole ad libitum per un tempo probabilmente tendente all’ infinito (si ascolti qui la versione-fiume di sedici minuti di Evil Hoodoo che sfiancherebbe anche un toro). Il nuovo contratto viene inaugurato subito con l’ uscita del primo singolo nell’estate del 1965 e che viene replicato, vista la buona accoglienza, in apertura del loro LP di debutto. Can‘t seem to make you mine è in realtà un pezzo poco convenzionale per aprire un album. Si tratta di una ballata in cui Sky dà sfoggio del timbro nasale che caratterizzerà tutta la sua produzione, colorata dal suono cristallino del piano di Hooper e sostenuta da pochi sparuti accordi twang della sei corde di Jan Savage, un inusuale cambio in La Minore e un assolo di melodica sul bridge ad opera dello stesso Jan. Un inizio pigro ma straordinariamente erotico, come una mutandina dall’ elastico lento. Le mani che si insinuano piano ma decise verso l’ oggetto del desiderio, la voce che diventa un’implorazione oscena d’amore mentre le dita diventano smaniose di esplorare. No Escape, a seguire, costituisce invece l’ archetipo del suono dei Seeds. Martellante, ipnotico, ossessivo, monotono e ripetitivo, sostenuto da una sessualità famelica e da una superficialità tutta punk (provate a concentrarvi sul battito del tutto approssimativo del cembalo e capirete cosa voglio dire). Meglio ancora fa Evil Hoodoo dove la ripetitività diventa opprimente fino al disgusto, con un breve riff fuzzato ripetuto per cinque minuti e quattordici secondi senza alcuna variazione, come fosse la premonizione di un incubo dei Suicide. Tutto l’album persevera in questa persecuzione spasmodica, catartica dell’ unico concetto fondante del suono dei Seeds: ipnotismo, reiterazione (musicale ma anche verbale, si faccia caso all’ intercalare “night and day” sfruttato praticamente su tutti pezzi), maniacale ricerca del piacere perverso, assecondamento della pulsione erotica attraverso una musica compulsiva e nevrotica che è antropologicamente legata al concetto meccanico/sessuale della masturbazione. Tra riverberi di 13th Floor Elevators (Girl, I want you) e Music Machine (It‘s a hard life) e, soprattutto, una perenne autocelebrazione di se stessa (Pushin’ Too Hard è la copia di No Escape, Try to understand un’accelerazione di Can‘t seem to make you mine, Excuse Excuse una Evil Hoodoo tirata fuori dalla cripta) la musica dei Seeds si riversa sulle nostre gambe come una serie infinita di schizzi di sperma. Su questa attesa ristampa (l’unica ad uscire su singolo CD) una ottima serie di inediti (tra cui Dreaming of your love e la folgore She‘s wrong nota per essere stata inclusa nella raccolta Fallin’ off the edge) e di provini e scarti che faranno la gioia dei seguaci di Zio Sky (una Pushin’ Too Hard allungata a tre minuti e 15 secondi, la versione “Sister Ray” di Evil Hoodoo, una Out of the question al cardiopalmo al termine della quale Sky viene redarguito dal produttore Jimmy Maddin che lo esorta a non ballare come un ossesso mentre canta per evitare di andare fuori tempo anziché fuori-questione e altre delizie). Avete preso impegni per il 2013? Io si, altri tre. (Franco Dimauro)

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