Lo scioglimento dopo Down on the upside era dopotutto stato indolore. A conferma del fatto che in termini di espressione i Soundgarden avevano già dato il meglio di sé. In quanto a innovazione, già da un po’ di anni. Il tentativo di riciclarsi oltre i confini della propria dignità artistica fino a lambire i limiti della decenza sarebbe stato un gesto estremo di narcisismo suicida. E questo i Soundgarden lo hanno evitato. Poi sono venuti gli Audioslave e i terribili dischi solisti di Chris Cornell a farci rimpiangere quel mancato suicidio. Ma quelle erano altre storie. Quella dei Soundgarden si era invece chiusa il 9 aprile del 1997. Ora, tornano i loro fantasmi, evocati da un Guitar Hero qualsiasi. King Animal torna ad alitare il respiro degli ultimi Soundgarden, quelli mainstream di Superunknown e Down on the upside. Lo fa con tutta l’enfasi, l’abilità e il mestiere che il nome e la storia impongono loro. E fino ad un certo punto del disco (diciamo fino al raga-rock di A thousand days before) la credibilità regge, supportata dall’energia e dall’estro di Kim Tahyil e nonostante le corde vocali di Chris non siano più quelle dell’ epoca d’oro. E noi non così stupidi da pretendere che lo siano. Poi il disco comincia a perdere quota. Ad appesantirsi. E non di quella pesantezza atomica che era propria della cellula Soundgarden quanto piuttosto di un ipotizzabile impiccio ispirativo che finisce per far precipitare larga parte del resto del disco, diviso tra vecchi residui di vomito hard-psichedelico (Blood on the valley floor, Taree), ballate che rimandano al triste Cornell in solitario (Halfway there, Black Saturday) e qualche buffo e compassionevole tentativo di reinventarsi (Rowing, Attrition, Eyelid‘s Mouth) facendo a pugni col proprio passato. King Animal, come tutti i rientri in scena dopo tanti anni, è suscettibile del nostro termometro affettivo e mnemonico. E del nostro calendario. E del rimpianto delle pagine che abbiamo già strappato e usato per pulirci il culo. E della nostra pretesa assurda e della nostra superbia di crederci eternamente giovani mentre guardiamo il mondo invecchiare. Perché della vecchiaia, non della morte, abbiamo paura. (Franco Dimauro)
✓ MUSICLETTER.IT © Tutti i diritti riservati - 18 Febbraio 2013