Alla fine il culo riuscirono a farselo baciare davvero, i Pogues. Nel 1988, quando esce il loro terzo album, tutti stravedono per loro. Vecchi puristi, anime ribelli, ubriaconi, stelle del rock, giovani appassionati di musica indipendente, glorie del punk, giornalisti, gestori di pub, registi, dentisti. Una folla che acclama i Pogues come la più importante band londinese del dopo-Clash. Sembrano scesi dalla terza classe di un transatlantico, stipati tra casse di alcool e brande di legno marcio eppure sono riusciti a conquistare il mondo. Il rogue-folk, quell’alcolico blend tra musica zigana, tradizione popolare e impudenza punk è al suo apice artistico e commerciale e If I should fall from grace with God è arrivato per raccogliere quello che Red roses for me e Rum, Sodomy and the Lash avevano seminato, al passo indemoniato di gighe e polkas o a quello più mesto e doloroso di ballate come Fairytale of New York o Lullaby of London, cartoline grigie piovute tra il Natale e l’Epifania più tristi del decennio. Il dolore che resta lì, come se nessuno fosse venuto a ritirare le pattumiere dell’umido. Il dolore rappreso in gola, mischiato con il whisky e la birra a triplo malto. Il dolore che ha corroso lo smalto dei denti di McGowan e ora gli sta portando via anche l’anima. Musica carica di un paganesimo così intenso e fiero da diventare sacro. Un disco pieno di nostalgia e furore, di necessità di riscatto e di politica, di voglia di ballare attorno al falò delle proprie disgrazie, If I should fall from grace with God. Un album ancora indisciplinato e velenoso, nonostante gli sforzi di Steve Lillywhite per mettere un po’ di ordine nel muro di suono della band. Quindici canzoni che ci fecero diventare, per qualche ora, tutti irlandesi. Senza conoscere l’Irlanda. Tra i dieci dischi da portare all’inferno, per far ballare Belzebù. (Franco Dimauro)
✓ MUSICLETTER.IT © Tutti i diritti riservati - 25 Febbraio 2013