Prima che la sua grandezza artistica fosse unanimemente riconosciuta (”Amarcord” mette tutti d’accordo anche se ha già fatto in precedenza di meglio con almeno altri tre film) e nonostante i riconoscimenti planetari – o forse proprio per questo – per anni i critici nostrani – con una spocchia senza eguali – si sono equamente divisi sulla figura di Federico Fellini. Da alcuni lodato come uno dei più grandi visionari della decima musa e da altri condannato come il becchino autoindulgente e molle del neo-realismo, il maestro ha avuto, sin dagli esordi, però, la soddisfazione di sapere che i critici non erano indifferenti al suo lavoro. Fellini approda alla regia del suo primo film – Lo sceicco bianco – per caso. Avrebbe dovuto farlo Michelangelo Antonioni, che aveva già realizzato il documentario “L’amorosa menzogna” sul mondo dei fotoromanzi perché l’Italia povera e stremata dalla guerra ne è ossessionata. Fellini è la terza scelta, un ripiego dopo l’ammalato Antonioni e l’indisponibile Alberto Lattuada. Nel libro “Fare un film” (Einaudi, 1980) spiegherà tutti gli impacci degli esordi e la paura per il compito affidatogli che, se da un lato spiegano qualche piccola incertezza della “grammatica cinema” de “Lo sceicco bianco”, sembrano brillantemente superati dal regista proprio in funzione del valore intrinseco dell’opera: “… il primo giorno di lavorazione cominciò male, proprio male… Sulla strada di Ostia, alla Cinquecento era scoppiata una gomma, allora quando scoppiava una gomma bisognava cambiarla con le proprie mani. Io comunque non me ne sentivo capace, così stavo lì, abbastanza disperato, pensando che ero già in ritardo per la mia prima regia. Per fortuna passò un camionista siciliano di buon umore, e fece il cambio lui. Arrivai a Fregene alle nove e tre quarti mentre l’appuntamento era per le otto e mezzo. Si erano imbarcati tutti in un barcone che era a un chilometro di distanza su un mare immenso. Mi parevano lontanissimi, irraggiungibili. Mentre un motoscafo mi portava verso di loro, il barbaglio del sole mi confondeva gli occhi. Non solo erano irraggiungibili, non li vedevo più. Mi domandavo ‘E ora cosa faccio?…’ Non ricordavo la trama del film, non ricordavo nulla, desideravo tagliare la corda e basta. Dimenticare. Poi, però, di colpo tutti i dubbi mi svanirono quando posai il piede sulla scala di corda. Mi issai sul barcone. Mi intrufolai tra la troupe. Ero curioso di vedere come sarebbe andata a finire”. Roberto Rossellini, però, visiona in privato “Lo Sceicco bianco” e ne rimane così sfavorevolmente impressionato che, una volta espresso questo giudizio a Fellini, si pone implicitamente fine alla loro amicizia. L’accoglienza alla Mostra di Venezia del 1952 non fu negativa ma il pubblico – convinto forse di vedere un film storico-avventuroso – ne rimase deluso e ne decretò l’insuccesso commerciale. Le recensioni furono poco tenere e persino la rivista Bianco e Nero scrisse di: “… un film talmente scadente per grossolanità di gusto, per deficienze narrative e per convenzionalità di costruzione, da rendere legittimo il dubbio se tale prova di Fellini regista debba considerarsi senza appello”. In realtà il cinema italiano di quel periodo imbevuto di neorealismo scambiò per una stramba commedia un’opera di grande valore artistico e cinematografico che contiene in nuce tutto il mondo fantastico del regista riminese (i primi volti di un catalogo molto nutrito di “lunatici” perdenti su cui Fellini costruirà il suo universo poetico) e che, soprattutto, definisce un ambito estetico costituito da ironia consolatoria, da malinconia e da sogni incredibili che descrivono l’essenza della vita reinventandola a sua volta. “Lo sceicco bianco“, infatti, contrariamente a ciò che molti dissero non è un bozzetto in stile simil-vaudeville sulle piccinerie della piccola borghesia dell’epoca o meglio non è solo questo. Sotto la patina di “caricaturismo” tenero ed indulgente – l’autore in fondo si sente complice dei personaggi rappresentati – Fellini lascia aperto un importante spazio di riflessione. La realtà è noiosa e oppressiva sempre e comunque. Per Wanda, la mogliettina superficiale, la figura de “Lo sceicco bianco” (maschera che Sordi rende patetica ed grottesca) è il palliativo che cura le proprie frustrazioni. In questo senso un’immagine pura, un proto-ologramma di carta che dovrebbe trascendere una vita scialba. Anche Ivan (il marito) avverte il fastidio della mediocrità ma s’illude che l’adesione completa a questo modello esistenziale possa aiutarlo a dimenticare la sua condizione. Con questo film inizia il lungo viaggio auto-psico-analitico di Fellini che prosegue egregiamente con il successivo “I Vitelloni” (1953), opera archetipo sul mondo-provincia, sull’amato-odiato borgo natio, la Rimini di Moraldo, Alberto, Fausto, Leopoldo e Riccardo – cinque amici che trascinano le loro giornate in maniera stancamente velleitaria – che è anche la Rimini del regista. Il film che apre al suo autore la strada del successo popolare (vince anche il Leone d’argento in un’edizione della Mostra veneziana che non assegna quello d’oro) è attraversato dalla grazia che è propria solo delle grandi opere e costituisce un momento di sintesi magistrale tra la rappresentazione beffarda di un mondo chiuso e autoreferenziale ed il rimpianto del “temps perdu” di proustiana memoria. Molte sequenze de “I Vitelloni”, infatti, appartengono di diritto ad un’ipotetica raccolta del migliore cinema italiano: la presa in giro dei “lavoratori” che costringe gli amici a fuggire e le incursioni goliardiche per le vie d’una città notturna e “oscura” sono esempi di mirabile sarcasmo, la promenade su una spiaggia invernale desolata e il ciondolare stanco di Alberto avvinghiato ad una maschera di cartapesta dopo il veglione carnevalesco evocano una malinconia struggente che diventa dolore acutissimo. L’autobiografismo felliniano non è ancora sublimato (“Amarcord” è lontano e con esso anche il rimpianto del passato) e alcuni episodi del film possono risultare un po’ datati ma appare incredibile come come il cinema del regista romagnolo sia, comunque, ogni volta sempre emozionante e sorprendente. “I Vitelloni” conserva – nonostante gli anni – ancora un grande fascino ed interesse rappresentando, un volta di più, il ritratto autentico di un mondo immerso nel vuoto della vanagloria giovanile e nella grettezza della provincia italiana, un micro-cosmo costituito da personaggi ora buffi ora tragici ora detestabili. Figure iconografiche che diventano a loro volta rappresentative di desideri, sogni e rimpianti universali. In un certo senso “I vitelloni” completa l’opera di superamento – già iniziata con “Lo sceicco bianco” – del neorealismo cinematografico italiano fino a quando – qualche anno dopo – i film del maestro – “La dolce vita” in primis – daranno alla luce tutto il fantastico ed iperbolico mondo felliniano. Naturalmente, quest’opera è anche e molto più di quanto sopracitato, come spesso accade quando si parla del cinema di Fellini, infatti: “per le qualità del suo racconto, l’equilibrio e l’assoluta padronanza di tutto l’insieme, questo film sfugge sia alle categorie commerciali sia alle qualità provocanti che permettono di consacrare e di definire un’opera.” (André Martin – Cahiers du Cinéma, maggio 1954). Indefinibile come tutti i capolavori. (Nicola Pice)
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