Dopo aver girato, autoprodotto, Le silence de la mere, affascinante esperimento letterario-cinematografico, contrassegnato da uno stile contegnoso e rarefatto, e aver tradotto per il grande schermo Les enfants terribiles di Jean Cocteau (opera che esibisce con orgoglio la propria natura teatrale), Jean-Pierre Melville (nome d’arte assunto al posto di Grumbach in onore del grande romanziere americano) si dedica alla rilettura del genere gangsteristico a stelle e strisce, un ambito nel quale introduce con la sua tecnica (apparentemente) semplice – macchina a mano e luce naturale – un nuovo tipo di realismo non accademico. L’impatto che l’autore francese ha sul noir è incredibilmente rivoluzionario: non è solo la strettissima contaminazione tra letteratura alta e cinema poliziesco, spesso ritenuto a torto di serie b, a determinare un cambiamento stilistico ma in particolare la visione – e quindi la rappresentazione – dei personaggi. A Melville non interessano (soltanto) le dinamiche narrative, il congegno strutturale che determina meccanicamente il funzionamento del genere, ma in particolare il lato oscuro della società in cui si agitano i protagonisti dei suoi film e, conseguentemente, l’ambiguità della natura umana. Criminali e poliziotti, dunque, sono entrambi soli, perduti, bloccati in una sorta di scacco esistenziale che, lungi dal contrapporli, (in fondo agiscono con scopi e finalità differenti) sembra, al contrario, unirli simmetricamente in un ineluttabile destino di dolore a cui è impossibile sottrarsi. Nasce un nuovo (sotto)genere: il polar, la via francese al noir americano, più rarefatto ma non meno malsano dell’illustre progenitore. Con Le Samouraï del 1967 (Frank Costello faccia d’angelo è l’assurdo titolo italiano che, altrettanto inspiegabilmente, cambia il nome del protagonista da Jeff a Frank) si perfeziona lo stile del regista che qui raggiunge probabilmente il suo punto più elevato. Il samurai del film, interpretato da un intenso Alain Delon, è un uomo che non ha passato e neanche un futuro: il killer Costello, lucido e freddo, sarà ucciso, infatti, dalla polizia prima di compiere l’ennesimo delitto su commissione, vittima di un tranello a cui, consapevolmente, si consegna, presentandosi con la pistola scarica. Il personaggio ritratto magistralmente da Melville, una compassata icona dell’isolamento terreno, tristemente compreso nel suo crepuscolo emotivo, sembra agire nella consapevolezza della propria fine crudele al pari di coloro che uccide. I suoi gesti sono ripetuti maniacalmente, con una ritualità sacerdotale che prefigura l’ineluttabilità tragica degli eventi (Costello indossa guanti bianchi e passa le mani sulle falde del proprio cappello prima di commettere un omicidio). I suoi silenzi ci lasciano intuire un complesso mondo interiore che, però, nessuno può decifrare perché composto da una solitudine estrema e dolorosa che non si può lenire in alcun modo e che viene vissuta nel privato d’una stanza spoglia, ravvivata soltanto dal canto di un uccellino in gabbia, proiezione simbolica del protagonista che è prigioniero del proprio infausto “sé”. Prima di andare all’appuntamento nel quale troverà la morte il killer incontra la sua amante Jeanne per un addio: la donna sarebbe disposta a tutto per proteggere il suo uomo ma Costello sa di dover affrontare “da solo” questo suo ultimo compito così come “da solo” ha vissuto la propria esistenza. Il visual-style melvilleiano è un esplicito omaggio alla drammaturgia giapponese – sin già nel titolo dell’opera – ed in particolare a Kenji Mizoguchi, autore molto amato dal regista francese, la cui influenza appare evidente nelle morbide carrellate della macchina da presa, nella messinscena fortemente stilizzata e severa, nell’austera composizione dell’inquadratura quasi del tutto priva d’orpelli scenografici (si diceva della stanza spoglia emblema della desolazione e della nevrosi del samurai) ed in un montaggio “raggelato” che riduce all’essenziale l’azione dei protagonisti, estremamente composti nei gesti ma anche molto sobri negli stessi dialoghi per cui ogni frase assume le caratteristiche d’una sentenza inappellabile. Inoltre la fotografia di Henri Decae – cupamente notturna e tutta virata sui toni spenti del grigio, del blu e del verde – determina in maniera straordinaria il paradosso di un film a colori “in bianco e nero” che è in grado di delineare, graduando l’intensità cromatica delle tinte impiegate, le devianze mentali del protagonista grazie anche all’accurata documentazione effettuata da Melville sulle psicosi (Costello è afflitto probabilmente da una schizofrenia allucinatoria). L’insieme confezionato dall’autore francese appare, dunque, d’una perfezione assoluta: ogni elemento ha il compito di evidenziare l’opprimente sensazione di solitudine, di vuoto, di silenzio, di sospensione emozionale, la certezza che la vita sia predeterminata dal male ed indirizzata alla sofferenza. L’opera di Melville, a ben vedere, assume solo formalmente gli stilemi del noir per (voler) essere un film “teorico” impregnato di esistenzialismo sartreiano, una sofisticata riflessione filosofica non solo sul male di vivere ma più profondamente sull’impossibilità stessa del vivere. (Nicola Pice)
✓ MUSICLETTER.IT © Tutti i diritti riservati - 4 Marzo 2013