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(Ri)visti in TV: Million Dollar Baby di Clint Eastwood (2004)

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Il cinema americano degli ultimi trent’anni non ha conosciuto rivoluzioni significative ma è stato caratterizzato dalla (com)presenza di diversi stili che hanno determinato un rinnovamento costante dei mezzi di produzione (l’importanza degli Studios hollywoodiani è diminuita), delle correnti e delle poetiche. Le opere realizzate da Clint Eastwood – nel corso della sua lunga carriera di regista – non sono certamente assimilabili alle sperimentazioni postmodene di altri prestigiosi autori (David Lynch, Jim Jarmusch, Gus Van Sant, Abel Ferrara, Gregg Araki, Todd Solondz, i fratelli Coen o Quentin Tarantino, per citarne alcuni) che o tendono all’individualità autorale assoluta seguendo percorsi autonomi oppure ricontestualizzano elementi del passato in un ambito completamente nuovo. Al contrario il cinema di Eastwood nasce già “classico” per l’estrema cura (formale) nel montaggio, nella fotografia, nella scelta della colonna sonora (è un jazzista e jazzofilo competente) e per la comprensibilità narrativa ma questi aspetti non implicano che i suoi film siano automaticamente “semplici”. L’autore californiano mette in scena, all’opposto, l’insondabile complessità della natura umana, le sue intime contraddizioni, la sua intrinseca fragilità e, in definitiva, il mistero stesso della vita. Universalmente riconosciuto come grande maestro dopo un inconsueto percorso cinematografico che, prima dell’approdo registico, lo ha portato ad essere, in qualità d’attore, prima il simbolo del western all’italiana, poi, la personificazione del conservatorismo a stelle e strisce con la saga dell’ispettore Callaghan, ancora oggi nelle sue opere Eastwood, evidentemente non pacificato, indiscutibilmente inquieto, non smette d’interrogarsi sul senso stesso del fare cinema indagando le possibili relazioni tra la sua più grande ossessione – quella della morte – e la capacità (unica) della settima arte di consegnarci immagini che colte nell’attimo stesso in cui sono girate possono anche non essere più di questo mondo (che equivale alla consapevolezza e allo stupore di un uomo che sa di lasciare qualcosa che lo renda visibile anche oltre la soglia della vita). Difficile individuare l’apice d’una produzione ricchissima di titoli che, iniziata negli anni ‘70 del ‘900, soprattutto dalla fine degli anni ‘80 (dal sontuso, ellittico “Bird”) ad oggi conosce ben pochi cedimenti: forse la crudele trilogia sulla disumanità composta da “Gli Spietati”, “Un mondo perfetto” e, più in là cronologicamente, “Mystic river”, il toccante mèlo de “I ponti di Madison County“, il funereo massacro di “Lettere da Iwo Jima”, l’opprimente “Changeling”, il testamento doloroso di “Gran Torino”? “Million dollar baby“, entra di diritto nel ristretto pantheon delle opere più importanti realizzate da Eastwood: ispirato dalla forza dell’arte sapiente di questo grandissimo autore. Scritto e realizzato in un probabile momento di grazia emotiva e intellettuale, costruito con i perfetti meccanismi narrativi di una tragedia shakespeariana: impeccabile e rigorosa rappresentazione etica-filosofica della condizione umana e riflessione profonda sulle sue contraddizioni, sui conflitti morali che s’agitano nel suo animo e sulla presenza inspiegabile del dolore di cui siamo impotenti vittime sacrificali. Le scelte a cui siamo chiamati e che siamo costretti a fare infrangendo le norme scritte o morali e, ciò che è peggio, anche le nostre convinzioni. E la solitudine in cui ci troviamo a compiere quelle scelte (vedi la pratica “finale” dell’eutanasia) perché Dio ci lascia soli o non ci risponde quando lo chiamiamo. L’ineluttabilità del peccato che è conseguenza dell’ineluttabilità del male. Clint Eastwood spiazza e sconvolge lo spettatore modulando in maniera magistrale i toni: il dramma della prima parte del film del riscatto possibile della ragazza della lower class si trasforma nella tragedia del dolore e nel mistero della morte. La macchina da presa viene adoperata, però, con grande eleganza senza perdere di vista, comunque, il terribile evolversi della situazione dosando pathos e pudore in un meccanismo di climax ed anticlimax che ci strazia ancora di più. Alle scene incalzanti e frenetiche della prima parte, ravvivate da dialoghi ironici e disincantati, fanno da contrasto nella seconda parte (che inizia simbolicamente con il pugno sferrato a Maggie e a tutti noi, dunque) lenti movimenti di cinepresa su particolari apparentemente insignificanti, ma essenziali alla comprensione dei contenuti (in un gioco di rimandi continui), frequenti primi piani e dialoghi lenti di parole solo sussurrate: un lavoro di sottrazione che si riassume nell’essenzialità verbale, nella profondità degli sguardi, nella delicatezza delle inquadrature. La fotografia dai toni cupi avvolge le scene e con la sua algida bellezza trasfigura liricamente l’iper-realismo dell’ospedale e dei suoi orrori. La vita che s’agitava in Maggie si spegne silenziosamente e dolorosamente per paradossale mano di colui che ne era stato contagiato (Frankie) a evidenziare l’ineluttabilità stessa del destino umano. Struggente ed intenso, magniloquente come solo le grandi tragedie sanno essere ma malinconicamente dimesso, al contempo, Eastwood lascia parlare i sentimenti senza la retorica dei sentimenti guardando in faccia non solo l’american way of life, svelandone la falsità di miti impossibili, ma la vita stessa con le sue patetiche illusioni e i suoi inganni. Nonostante il tormento di un gesto estremo, ancorché compassionevole, a Frankie rimane solo il ricordo di una bella amicizia. Eastwood non riesce a offrirci più di questo commovente palliativo. (Nicola Pice)


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