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Arca Russa di Aleksandr Sokurov (2002)

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San Pietroburgo. Una soggettiva completamente buia e la voce fuori campo di un narratore (lo stesso regista o il suo alter ego?) che parla su un fondo nero: “apro gli occhi e non vedo nulla”. Si spalanca l’obiettivo ed appaiono i personaggi che occuperanno i corridoi dell’Hermitage. La voce inizia a dialogare con un viaggiatore europeo il cui nome non viene mai menzionato ma che è stato identificato da molti essere il marchese de Custine, un nobiluomo francese che visitò la Russia nell’800 (ipotesi seccamente smentita dall’autore che non basta, però, a svelare l’enigma sul senso stesso di questo personaggio all’interno dell’opera: probabilmente la metafora di un osservatore esterno non indifferente a ciò che vede e, al contrario, piuttosto critico). Procederanno insieme nell’esplorazione delle sale del museo dove sarà rievocata l’intera storia russa attraverso l’interpretazione “animata” dei protagonisti: lo zar Pietro il Grande, fondatore della città nel 1703, frusta uno dei suoi generali, l’imperatrice Caterina II assiste alle prove d’uno spettacolo, la famiglia reale è riunita intorno ad un tavolo del tutto insensibile ai cambiamenti sociali che accadono all’esterno del palazzo. Vengono passati in rassegna i dipinti appesi alle pareti (Van Dyck, Rubens, El Greco, Rembrandt) prima dell’ultimo ballo di corte del 1913 alla vigilia del conflitto mondiale che segnerà progressivamente la fine dell’impero zarista e con la rivoluzione d’ottobre la nascita di quello sovietico: inizia la mazurka mimata con gesti eleganti e solenni dal maestro Valerij Gergev uno dei più grandi direttori d’orchestra del mondo. Il ballo termina, i presenti escono nella notte gelida, il misterioso viaggiatore/osservatore scompare e la voce fuori campo pronunzia come un epitaffio la frase: “dobbiamo vagare per sempre, dobbiamo vivere per sempre”. “Arca russa” di Aleksandr Sokurov toglie il fiato allo spettatore avvolgendolo con il sublime incanto delle sua stupefacente bellezza visiva. Una rappresentazione d’arte totale per la magistrale confluenza d’elementi diversissimi tra loro ma in perfetto equilibrio e, sopra ogni cosa, un’impresa tecnica e culturale tra le più incredibili mai realizzate nell’intera storia del cinema. Un piano-sequenza in alta definizione che dura quanto tutta l’opera (poco più di novanta minuti) sulle cui inconcepibili difficoltà di realizzazione (per chi ha scarsa dimestichezza con la materia cinematografica) Sokurov ha avuto modo di discutere in numerose interviste affermando di essere ricorso in alcuni casi a correzioni digitali a luce, colore e composizione. Una carrellata affascinante di storici “tableaux vivants” che si intersecano con i sofisticatissimi – nonché ironici – dialoghi fra il viaggiatore (il fantomatico, improbabile marchese de Custine) che osserva la Russia con lo sguardo di un occidentale imbevuto di luoghi comuni e la voce dell’invisibile Sokurov che, al contrario, da russo, sente nella carne gli avvenimenti che scorrono veloci ed implacabili come seguissero il tumultuoso e inarrestabile percorso della storia senza soluzione di continuità in osmosi con l’inviolabile “long take” disegnato morbidamente dal movimento della macchina da presa. “Arca russa” è, per contenuto narrativo, dunque, un omaggio alla storia dell’amato paese: quella dei grandi e quella degli ultimi, quella degli avvenimenti epocali e quella quotidiana del falegname di Leningrado tutta strettamente connessa. Una dichiarazione d’amore disincantata alle vitalissime contraddizioni di un popolo per qualche misteriosa ragione votato all’autolesionismo e da sempre straziato: prima dagli autoritarismi, poi dagli aspetti più deteriori del capitalismo occidentale. Nell’epoca della frammentazione postmoderna dei linguaggi, ed in manifesta controtendenza alla specificità estetica del cinema – da un lato il taglio del dècoupage che tutto parcellizza e dall’altro il montaggio che ricompone le parti in qualcosa di “altro” – “Arca russa” è un tentativo pensoso e faticoso ma nient’affatto sterile di ampliare le capacità stesse della settima arte – avvalendosi dell’apporto delle arti figurative, della letteratura, della storia – nella costruzione di nuovi circuiti di senso (compiuto) per le immagini non più flusso scomposto, atomizzate, ma ripensate, con il piano-sequenza che dispiega il “campo della visione”, in un’unità finalmente organica. L’opera di Sokurov, pertanto, nel suo immane, sincretico impegno intra-culturale, costituisce l’espressione più sinceramente romantica di una fiducia incrollabile nella possibilità che attraverso l’arte possa determinarsi una palingenesi e rappresenta, quindi, il manifesto più autentico di un auspicabile “neo-umanesimo”. E se il destino di noi poveri viventi è quello di vivere vagando, comunque, nei marosi dell’esistenza condannati alla sofferenza che la Storia ci infligge, l’autore sembra dirci che abbiamo il dovere di contrastare la nostra finitudine con la forza di ciò che la natura di uomini ci ha fornito: le forme dell’attività artistica che squarciano il buio e illuminano il resto dei giorni che abbiamo da vivere. (Nicola Pice)


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