Pensando al Norman Bates di hitchcockiana memoria si comprende come la settima arte abbia sempre subito il fascino degli “psycopathic killers”: assassini, mentalmente disturbati, dediti all’uccisione delle vittime di turno. Il cinema horror, nel corso della sua lunga storia, ha sentito su di sé ancor più forte il (perverso) richiamo della figura dell’omicida schizoide esasperandone l’efferatezza nella rappresentazione degli atti violenti fino al punto di determinare la nascita di un nuovo (sotto)genere: lo “splatter”, il sangue che schizza con copioso realismo dopo il macabro delitto, le stragi o le mutilazioni. Blood feast di Gordon Lewis del 1963 per molti studiosi ne costituisce l’ipotetico ?, di certo, comunque, è tra la fine degli anni ’60 e gli inizi degli anni ’70 del novecento, con il new deal inaugurato dal romeriano “La notte dei morti viventi”, che alcuni registi, parallelamente a un generale ripensamento del cinema horror, sempre più sganciato dalle goticherie letterarie, tentano una legittimazione autorale dello splatter. L’ultima casa a sinistra (1972) di Wes Craven inaugura una serie di pellicole ad alto tasso grand-guignolesco che nel corso degli anni daranno vita ad altre numerosissime variazioni sempre più estreme: lo “slasher” in cui viene rappresentata la progressiva decimazione di un gruppo di persone riunite in determinato luogo, il “necrosplatter”, delirante e indigesto pastiche di feticismo necrofilo, sadismo e psicosi assortite (pensiamo al macabro Necromantick di Jorg Buttgereit), fino al nasty-splatter, parossistico assemblaggio di sequenze ripugnanti che vede la sua apoteosi in Horror in Bowery Street (1987) di Jim Muro e in Gli schizzacervelli (1992) di Peter Jackson. Tutto all’insegna della trucida rappresentazione delle infinite possibilità negative dell’animo umano: lo splatter, infatti, mettendo in scena la metafora della brutale degenerazione dei rapporti interpersonali e sociali configura la violenza come una sorta di grado zero dell’esistenza con la quale è possibile spiegare il “nonsense” stesso della vita e della morte (emblematici sono i film più crudamente iper-realisti di Takashi Miike o “Tokyo fist” di Shinya Tsukamoto). La macelleria “nastie” che per lungo tempo ha caratterizzato l’horror fino agli anni ’90 del novecento ha avuto una battuta d’arresto in seguito alla renaissance dell’occulto di provenienza orientale per conoscere più tardi una ripresa che è completamente indipendente dalla prevalenza di un genere sull’altro quanto, piuttosto, legata alla tendenza citazionista dell’horror contemporaneo che tritura codici e stili differenti in un gioco infinito di rimandi metacinematografici. Il debutto sul grande schermo del musicista di “alternative metal” Rob Zombie, avvenuto nel 2003 con “La casa dei 1000 corpi”, è all’insegna della rivisitazione fumettistica dello splatter: la brutalità visiva, esasperata e gratuita, viene progressivamente innocuizzata, infatti, dallo straniante contrappunto dei dialoghi infarciti da amene battute di spirito ed il film assume sempre più i contorni di un astratto manifesto teorico sulla devastazione dei corpi nella società contemporanea nonché la metafora grottesca, ma estremamente critica, della “mcdonaldizzazione” dell’horror destinato a diventare truculento clichè e stanca parodia di sé stesso. Il senso di fare un cinema “esteticamente” splatter per Rob Zombie non cambia con il successivo “La casa del diavolo” del 2005 ma con quest’opera il regista sposta in avanti l’asticella delle proprie ambizioni narrative regalandoci un’opera di maggiore maturità e di straordinario valore artistico. La trama del film segue un copione abbastanza collaudato nell’ambito del genere: la caccia dello sceriffo Wydell ai tre componenti fuggiaschi de “i reietti del diavolo”, Otis, Baby e l’inquietante Spaulding truccato da clown, colpevoli di una serie di sanguinosi crimini, tra cui il sequestro, la tortura e l’uccisione dei membri di un gruppo country, è il simbolo dell’eterna lotta tra il bene e il male, stilema di tante pellicole “gore”. Ciò che lo differenzia da altri film è, invece, la determinazione con cui il rappresentante della legge svolge il suo compito: risulta così ossessiva e i mezzi impiegati così crudeli che nel confronto-scontro con i reietti le parti dei buoni e dei cattivi si scambiano a tal punto che è difficile riconoscere nella ferocia con cui Wydell stermina i componenti della setta un comportamento conforme a criteri eticamente accettabili. Per l’autore lo sceriffo si è trasformato in un killer invasato che uccide in nome di Dio, del tutto assimilabile agli psicopatici a cui dava la caccia e che senza alcuna pietà massacravano persone innocenti proclamando la vittoria del Male. In verità esistono ancora individui dall’animo limpido o, al contrario, il confine tra la purezza ed il peccato è così sottile che il male ha corrotto completamente le azioni umane? “La casa del diavolo” pone questo insolubile dilemma collocandolo nel cuore “di tenebra” dell’America più rurale: tra i sentieri agricoli, negli immensi spazi di questo bizzaro “road-movie” si frantuma definitivamente per Rob Zombie l’utopia di una società in cui chiunque possa vivere pacificamente e, dunque, il mito stesso dell’american dream, fondato sul genocidio dei nativi, tenuto insieme dal collante dell’omologazione culturale e il cui dissenso viene represso con sistematica violenza. I reietti del diavolo commettono azioni criminose perché sono marginalizzati dalla società a causa del loro anarchismo hippie, sfrenato e dissacrante (rejects, i reietti, che significa anche “rifiuti”) e perché vittime a loro volta delle ingiustizie subite (in passato) dalle istituzioni civili che non possono fare altro, alla fine, che reprimere la loro diversità così come gli eserciti dei colonizzatori bianchi sterminavano gli indiani che si opponevano al loro dominio. La devastante cupezza simbolica e, soprattutto, la notevole capacità di controllo dei codici cinematografici dell’autore, fanno di quest’opera uno dei migliori horror degli anni zero, al contempo compendio dello splatter più estremo ma anche rilettura nichilista dell’epica western e dell’exploitation di taluni noir americani. Il virtuosismo stilistico di Rob Zombie non è sterile esibizione di bravura tecnica ma interamente al servizio del film: il montaggio frenetico, infatti, riesce ad alternare improvvise accensioni e sospensioni narrative con l’utilizzo di stacchi improvvisi, di ralenti, di dinamici movimenti di macchina, di lunghi carrelli e frame-stop recuperando creativamente gli elementi del cinema “nuovo” che si affermò negli USA negli anni ’70. D’altronde l’opera è stata girata in formato super 16 (millimetri) per rendere al meglio l’immagine “sporcata” tipica delle pellicole monoperforate di quegli anni. Rob Zombie ha voluto impiegare, però, diversamente dalla tipicità claustrofobica di questo genere di film horror, una fotografia che restituisse la luminosità “en plein air” dell’intenso azzurro del cielo e delle rigogliose distese agricole in cui si svolgono gli avvenimenti senza rinunciare, però, alla vivida colorazione rossastra del sangue che scorre in abbondanza e di cui i protagonisti sono sempre impiastricciati: nei volti, nei corpi, negli abiti. Il sangue che dalle membra straziate dei personaggi sembra debba traboccare dallo schermo per inondarci e disgustarci distruggendo la compostezza formale del cinema classico e spazzando via il perbenismo ipocrita di noi spettatori sempre alla ricerca di un catartico lieto fine, di una impossibile riconciliazione, volutamente incapaci di comprendere che la vita è un orrore ben più “indicibile” e “irrappresentabile” di qualsiasi film. (Nicola Pice)
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