Hollywood, 1953. Un giovane di bell’aspetto e dai comportamenti decisamente stravaganti (indossa vezzosi golfini d’angora: non è un omosessuale ma un “crossdresser”) incontra in un funeral parlor Bela Lugosi, ex star dell’horror degli anni ‘30. Ed Wood ama il cinema, vorrebbe diventare un regista famoso e, nel tentativo di coinvolgerlo nella realizzazione di un film, offre indirettamente un aiuto all’anziano attore ormai in declino e, per di più, morfinomane. Mette in piedi una nutrita corte dei miracoli – surrogato di un improbabile staff – di cui fanno parte lo stesso Lugosi, Kathy O’Hara, una mediocre attrice che vorrebbe avere successo e che sposerà Wood (nel frattempo abbandonato dalla prima moglie), il veggente Criswell King, un lottatore di wrestling svedese di nome Tor Johnson e Vampira, conduttrice di un horror show televisivo. Il regista riesce a trovare i finanziamenti ma il film prodotto si rivela l’ennesimo insuccesso di una carriera che stenta a decollare. Nel frattempo Bela Lugosi viene ricoverato in ospedale dopo un’improvvisa crisi ma Wood continua a pensare al film che rilancerà la fama dell’attore e risarcirà se stesso delle delusioni fin qui patite. Il reverendo Lemon accetta di finanziare il progetto del regista ponendo come condizione che l’intera troupe si converta al culto battista. Le riprese iniziano e riescono a concludersi nonostante la morte di Lugosi, avvenuta durante la lavorazione, sostituito da una controfigura. Per la prima volta un film di Ed Wood, “Plan 9 from Outer Space”, siamo nei territori della fantascienza, viene proiettato in una prestigiosa sala, completamente gremita, di Los Angeles, il Pantages Theater, regalandogli l’illusione di un possibile successo che, purtroppo, non arriverà mai. “Pee-wee’s Big Adventure”, “Beetlejuice”, i primi due episodi della saga di Batman e, soprattutto, Edward mani di forbice avevano rivelato la capacità immaginifica di Tim Burton nella creazione di affascinanti forme cinematografiche. Queste pellicole sono la rappresentazione di storie fantastiche, stravaganti ed argutamente allucinate in cui l’horror acquista una dimensione fiabesca colorandosi di sentimentalismo e, nello stesso tempo, di humour gotico. Quest’opera è completamente diversa, però, da tutto quello a cui Burton aveva abituato il pubblico: è il frutto dell’innamoramento postumo di un estroso cesellatore di visioni filmiche per un pioniere ante litteram dei B-movies, per un uomo che, nonostante le difficoltà, la penuria di mezzi economici e, probabilmente, la mancanza di talento, continua ad inseguire il proprio sogno di realizzare qualcosa che abbia un valore artistico, o quanto meno, un senso cinematografico e, anche soltanto per questo, assurge alla dimensione di sfortunato eroe romantico. Il film ha una genesi imprevedibile e del tutto casuale come avviene, talvolta, per le attività più riuscite. Dopo aver prodotto per la Disney Nightmare before Christmas e lo sfortunato Crociera fuori programma, l’autore californiano, infatti, legge la sceneggiatura scritta di Larry Karaszewski e Scott Alexander sulla vita del regista, attore, montatore e produttore Edward Wod jr e s’appassiona all’idea di portarla sullo schermo sic et simpliciter, senza alcuna variazione. Ed Wood rappresenta (e nel film questo emerge inequivocabilmente) il simbolo di una fase del cinema americano di grande libertà, frutto della liberalizzazione del mercato distributivo, del progressivo venir meno della censura e della necessità, attraverso la pratica del “double feature” (doppio programma), di reperire un nuovo tipo di pubblico che determinerà la crescita di una produzione complementare di pellicole a basso costo (solitamente di genere horror e fantascientifico) dalla stravagante titolazione. La sceneggiatura di Karaszewski e Alexander descrive la vita di Wood dopo il fortuito incontro con Bela Lugosi, concentrandosi sul particolare rapporto che si instaura tra i due, assimilabile a quello tra un padre e il figlio, e racconta le travagliate fasi della lavorazione di “Glen or Glenda”, finto documentario sul travestitismo del protagonista indeciso se vestirsi da uomo o da donna, “La sposa del mostro”, horror fantascientifico, e di “Plan 9 from Outer Space”, l’anticapolavoro per eccellenza, girato in un appartamento simulando l’interno di una navicella spaziale. Nelle mani di Tim Burton, tuttavia, il soggetto, pur mantenendo il tratto biografico, seppur romanzato, diventa “polimorfico”: più film che s’incastrano tra loro ampliando le possibilità interpretative e, soprattutto, moltiplicando le suggestioni. L’attrazione fatale nei confronti di Wood è l’omaggio e, dunque, la piena legittimazione resi dal regista californiano ad un’epoca per certi versi rivoluzionaria del cinema americano e della cultura “pop” di quel paese. La riproposizione di vecchie e declinanti “stelle” hollywoodiane, il ciarpame demodé, il “camouflage” gotico, il richiamo ad un immaginario caricaturale e gli effetti speciali ridicoli (dischi volanti realizzati con la carta stagnola tenuti su da fili ben visibili, piovre di plastica, lavatrici in luogo di navicelle spaziali) costituiscono in nuce l’elaborazione della cultura trash (la vera cifra estetica del postmoderno) che recupera soprattutto gli scarti. Dunque, il riciclo del dismesso armamentario mainstream – gli scarti inutilizzabili dei magazzini degli Studios e la paccottiglia già impiegata in produzioni minori – pongono le premesse (seppur con una buona dose di inconsapevolezza da parte di Ed Wood e ben al di là dei risultati stilistici) per la nascita dell’exploitation, il cinema di “genere” ai margini delle ricche produzioni hollywoodiane, che rivoluzionerà l’industria cinematografica internazionale. “Ed Wood” appare, pertanto, un film sul cinema che, nella sua delicata analisi, pone lo sguardo su un’epoca che sembra inventata o inverosimile perché lontana nel tempo ma che, al contrario, è più reale che mai non solo nella rievocazione di figure storicamente esistite (e che l’eccellente cast di attori restituisce al meglio: Martin Landau/Bela Lugosi, Johnny Depp/Ed Wood, Vincent D’Onofrio/Orson Welles) ma soprattutto nel suo lascito: il prevalere degli elementi più “camp” della cultura di massa che hanno progressivamente ridotto le distanze con la cultura “alta”, contaminandola e alterando definitivamente il gusto estetico prevalente. Ed Wood, però, è anche un film che s’interroga sul senso stesso del “fare cinema” e che fornisce implicitamente la sua risposta proprio nella raffigurazione del protagonista dell’opera: un personaggio tipicamente burtoniano, una figura umana bizzarra che, a causa della sua diversità e al pari delle altre stravaganti figure di cui si circonda, non è compresa ed apprezzata e che, quindi, viene relegata ai margini del suo lavoro e della società. Il cinema costituisce per Wood (e per lo stesso Tim Burton in definitiva) la possibilità di reinventare la vita, arricchendola di significato, dando corpo alle storie più fantastiche e ai sogni più impossibili da realizzare. Ben più d’una semplice occasione di affermazione sociale: lo strumento definitivo del proprio riscatto umano. “Fare cinema” è, dunque, più importante di “fare un cinema bello” anche se Burton non riesce a riprendere meno che perfettamente regalandoci un’opera che, pur restituendo volutamente l’incertezza registica di Ed Wood in alcune sequenze che rimandano alla preparazione e al backstage dei vecchi film, sa regalare momenti di grande virtuosismo (su tutti: il piano sequenza iniziale e il dolly conclusivo che stacca su un’Hollywood notturna) e che è di grande intensità poetica grazie ad una fotografia “d’antàn” che impasta il bianco e il nero in un’elegia fiabesca. A dispetto del ritratto biografico, infatti, Ed Wood è una favola cinematografica senza tempo. C’era una volta un giovanotto che amava con tutta la sua anima il cinema. Non aveva alcun talento ma, per una volta, questa è l’ultima cosa che conta. (Nicola Pice)
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