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Jeffrey Lee Pierce – Ramblin’ Jeffrey Lee & Cypress Grove With Willie Love (1982)

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Rientrato in Europa nel 1991 Jeffrey Lee Pierce apre i rubinetti della sua doccia di casa e si lascia naufragare in quella pioggia blues che gli infradicia i capelli unti, gli scivola sul torso, sul fegato gonfio e cirrotico, sul pube, poi gli ricopre le gambe e forma una palude ai suoi piedi. Il blues è venuto a riprenderselo, proprio adesso che in qualche modo sembrava essersene liberato. Jeffrey intuisce che se vuole sbarazzarsene deve parlare come lui, suonare come lui,respirare come lui. Fingere di essere lui. Pierce si trasforma dunque in Ramblin’ Jeffrey Lee: camperos alti, giaccone di pelle e cappello a falde. Poi, con due testimoni (Simon Fish e Tony Chmelik), si reca ai Zeezicht Studios di Spaarnwoude a firmare il suo testamento, promettendo di farla finita col blues. Lì dentro Ramblin’ Lee, Cypress e Willie, abortita l’ idea iniziale di incidere un album di murder-ballads ispirate al country rurale, registrano un disco-omaggio al blues delle origini. Qualcosa che inizialmente è talmente crudo e viscerale da venire registrato con le chitarre fuori tono per scostarsi il più possibile dai quei dischi di blues educato degli anni Settanta e Ottanta che Pierce odia, salvo poi essere costretto a reincidere le parti di chitarra per rendere l’album “vendibile”. Un disco che rilegge i brani che scorrono sotto la pelle del musicista californiano sin da quando era un adolescente: Goin’ Down di Don Nix, Killing Floor di Skip James, Mississippi Bottom Blues di Kid Bailey (che verrà poi esclusa dalla scaletta definitiva), Pony Blues di Charley Patton, Moanin’ in the moonlight di Howlin’ Wolf, Alabama Blues di Robert Wilkis, Good Times di Lightnin’ Hopkins, Long Long Gone di Frankie Lee Sims, Future Blues di Willie Brown, Bad Luck & Trouble di Lightnin’ Slim. Alla loro lezione si ispira Jeffrey per scrivere i pezzi propri che finiranno sul disco (le belle Stranger in my heart e Go tell the mountain sulle quali riaffiora il vecchio canto licantropo e morrisoniano dei giorni del Club) o che ne rimarranno alla fine fuori (L.A. Country Jail Blues, In My Room). È un disco intenso ma non doloroso. Orfano dello spleen epico e decadente dei dischi d’oro dei Gun Club e fedele ad un concetto di blues ruspante ma tutto sommato canonico. Le limitazioni tecniche dell’ età giovane che lo avevano costretto a deturpare il blues imbrattandolo con la fog(n)a punk sono state superate e adesso Pierce può fare sfoggio di una tecnica strumentale di cui i primi album dei Gun Club erano stati privati. Un vuoto virtuosistico che starà alla base di tutto il cow-punk e del movimento revivalistico dei primi anni Ottanta. Un album, forse l’ unico della discografia di Jeffrey Lee Pierce, che può piacere a tutti, dai fan della prima ora che possono finalmente alzare le coppe per brindare al ritorno alle origini aitanti amanti più o meno distratti, più o meno occasionali, più o meno necrofili del corpo ammaccato del blues. L’ alternanza di pezzi elettrici ad altri brani vestiti da pochi strumenti acustici rende tuttavia il disco godibile anche a chi non è solito frequentare la musica degli schiavi d’ America, allargando ancora il potenziale del pubblico di Ramblin’Jeffrey Lee & Cypress Grove with Willie Love. Ordinario eppure a suo modo necessario. Per Jeffrey e per tutti gli altri, siccome tutta la rinascita del lo-fi blues degli anni Novanta parte in qualche modo da qui, dalla slide guitar di Pony Blues e dalla furiosa scarica elettrica di Moanin’ in the moonlight. (Franco Dimauro)


✓ MUSICLETTER.IT © Tutti i diritti riservati - 11 Maggio 2013

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