Shining – che segue la raffinata divagazione pittorico-letteraria sul ‘700 inglese di Barry Lyndon e che precede il successivo impressionante catalogo degli orrori bellici di Full Metal Jacket – rappresenta l’esordio “a carte scoperte” di Kubrick nei territori della follia. L’autore ondeggia pericolosamente tra paranormale e soprannaturale ma lo stile si mantiene implacabilmente lucido. In fondo, anche quest’opera è un tentativo di fuga dal reale nella libertà. Ma è sempre – ed anche in questo caso – un tentativo fallimentare. Di tutti gli incubi romanzati da Stephen King questo è di certo il più filosoficamente sottile. Le vicende di una madre e di un bambino sfuggiti alla furia omicidia del padre, in un albergo vuoto fra le montagne del Colorado, si risolvono in una fuga dagli esiti drammatici che garantirà loro la libertà. Chi era davvero quest’uomo che aveva ambizioni letterarie frustrate e che ritroveremo alla fine del racconto in una fotografia del 1929 appesa ad una parete del bar? Una reincarnazione, un fantasma, un’emanazione simbolica dell’inconscio, un’allucinazione? E’ morto assiderato nel labirinto grazie allo stratagemma del figlio che voleva uccidere. Morto realmente? Le storie di fuga (per Kubrick) sono, dunque, storie di pazzia e di morte e metafora stessa dell’impossibilità per l’uomo di una salvezza. Importa poco il contesto storico o logistico: non c’è differenza tra l’Overlook Hotel e il Vietnam per l’autore che anche in questo caso piega tutto alle dimensioni del suo inflessibile linguaggio cinematografico. Kubrick estrae dal cilindro della sua arte ogni possibile effetto: l’iniziale carrello aereo di avvicinamento all’hotel contrappuntato dal lisztiano “dies irae”, il vagabondare incessante della steadicam che tallona angosciosamente Danny nei corridoi (l’operatore Garrett Brown utilizza un nuovo modello che permette le riprese dal basso restituendo con fluidità l’impressione di uno sguardo ad altezza di fanciullo), la scoperta dei cadaveri delle bambine, la follia di Torrance che viene descritta con i particolari della macchina da scrivere, dell’ascia, dell’inseguimento nel labirinto, della trasformazione in ghiaccio. D’altra parte il regista non rinuncia a disseminare nel film quei segni visivi (da sempre) ricorrenti nelle sue opere e che coincidono a tal punto con le proprie ossessioni da farne degli elementi caratteristici del suo stile autoriale. Il costante ed intenso “sguardo fisso” dei protagonisti (di Jack in particolare) che cristallizza l’inquadratura in una sorta di sospensione temporale utile a rivelarne i conflitti interiori. La simmetria orizzontale e/o verticale degli spazi – alla stessa stregua delle inquadrature – è un tòpos del cinema kubrickiano: i chilometrici corridoi dell’Overlook Hotel che Danny percorre sull’automobilina – ripresi da stupefacenti carrellate all’indietro ad accentuare la profondità del campo visivo – non sono poi così differenti dalle trincee precorse dal colonnello Dax in Orizzonti di gloria, dalla lenta promenade di Alex nel negozio dei dischi in Arancia meccanica, dalla locanda in cui Lord Bullingdon cerca Barry Lyndon, dalle camerate dove il sergente Hartman passa in rassegna le reclute in Full Metal Jacket e dalle stanze della villa che Bill attraversa (Eyes wide shut). Impossibile, infine, non menzionare la sonorizzazione che, pur nella sua semplicità, crea una straniazione inquietante: gran parte del suono, infatti, è naturale e per questo “realisticamente” determina un’atmosfera di minaccia incombente (pensiamo al rumore delle ruote dell’automobilina di Danny sul legno e sui tappeti dei corridoi). Nella partitura musicale “diegetica”, affidata a Wendy Carlos e Rachel Elkind, inoltre, vengono utilizzati strani gemiti e suoni strozzati che amplificano il mood orrorifico di un film in cui ogni atto, anche quando sembra tornare sui binari della normalità familiare, produce angoscia. I giochi di Danny, le piccole schermaglie tra Jack e Wendy (prima della tragedia), la fatica dello scrittore nel riuscire a portare a termine il suo lavoro, in una situazione ordinaria sarebbero tutte operazioni riconducibili ad una banale quotidianità ma in “Shining” covano una tensione fortissima che è il preludio alla successiva e completa manifestazione della catastrofe e che, in fondo, è la (ennensima) dimostrazione del teorema di Kubrick sulla “disfunzionalità” della famiglia. Nelle sue opere precedenti (soprattutto in “Lolita” ma anche in “Arancia meccanica” e in “Barry Lyndon”) l’autore newyorkese aveva analizzato i rapporti parentali evidenziandone le contraddizioni e l’ipocrisia ma con “Shining” il giudizio emesso è negativo in maniera assoluta. La famiglia rappresenta, infatti, il ricettacolo di ogni sorta di orrore: Wendy e Jack non si scambiano mai un gesto di tenerezza e, al contrario, nascondono e alimentano rancori profondissimi, la madre è incapace di accettare la condizione particolare del figlio e, in ultimo, gli stessi poteri extrasensoriali che Jack trasmette a Danny appaiono la metafora di una malessere psichico che tracima dal padre al figlio. L’Overlook Hotel è il teatro di questa disfunzionalità, “la casa” che, secondo Kubrick, al pari di tutte le abitazioni, testimonia ed alimenta i contrasti familiari fino alla dissoluzione della famiglia stessa o di uno dei suoi componenti. Al di là, comunque, di questa interpretazione (e di tutte le altre possibili analisi) “Shining” è un film che risulta quasi impossibile spiegare per la visionaria complessità che lo rende un unicum cinematografico. Excursus nella potenzialità allegorica ed orrorifica dell’alienazione della psiche, esplorazione delle tortuosità degli spazi fisici e mentali, analisi delle allucinazioni e dell’ipersensibilità umana, riflessione sul male? Scegliete voi! Tra obiettivi grandangolari e luce effettata, tra apparizioni di sangue e di cadaveri, lo sguardo indecifrabile di un bambino diverso è anche lo sgomento di noi spettatori nella vertigine di un’opera che, forse, ha un senso. (Nicola Pice)
✓ MUSICLETTER.IT © Tutti i diritti riservati - 13 Maggio 2013