Venti anni dal debutto dei Come. Te ne accorgi anche da cose così che stai invecchiando. Dal fatto che non ne abbia sentito la mancanza, che stai invecchiando male. Perché la malinconia è la tenerezza dell’età senile. La sua assenza, livore e malanimo. Così che quando una copia in doppio cd di Eleven:Eleven bussa alla mia porta, in un 23 maggio gonfio di antibiotici, suona come un monito, un intervento di soccorso, una puntura di adrenalina alla tua memoria che pare voler appassire. I Come! Cazzo, a me piacevano i Come! Perché suonavano come gli Uzeda. Perché alla voce c’era Thalia Zedek, la Lydia Lunch dell’alternative-rock americano degli anni Novanta. Una donna sfatta e divisa tra droghe, sesso, filmetti, musica e prostituzione. Perché le loro canzoni avevano dentro questo vento sabbioso che ti bruciava gli occhi, come fossero state costruite dentro un ospedale da campo nello stesso deserto abitato prima dai Thin White Rope (l’attacco tremolante di Submerge, le chitarre striscianti di Off to one side, il surf surreale e depresso di William). Perché era il blues che non piaceva, non poteva piacere, a quelli che ascoltavano il blues. Oggi che ritorna, con in aggiunta il singolo coevo Fast Piss Blues/I got the blues e l’esibizione al Festival Vermonstress organizzato dalla Sub Pop nell’ottobre del 1992, Eleven:Eleven è ancora un disco imponente, ammalato, agghiacciante e maestoso. Ci sono queste progressioni di chitarra incolte, come cumuli di polvere pirica, come grovigli di conduttori di rame, come vorticose lame di un robot da cucina che amalgamano questa malta spuria rendendola catramosa e densa. Ugualmente intenso il set vomitato sul pubblico di Burlington l’11 (ancora) ottobre 1992 con le due facciate del primo singolo, la title track del secondo, la SVK dal terzo e quattro pezzi dall’album. Per chiunque tra voi pensi che il blues sia il rigurgito del dolore, è ora di svegliarsi. Sono già (di nuovo) le 11:11. (Franco Dimauro)
✓ MUSICLETTER.IT © Tutti i diritti riservati - 29 Maggio 2013