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Barcellona – Primavera Sound 2013: il reportage di Musicletter.it

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Fa uno strano effetto pensare che questo appena passato sia stato il mio ultimo festival da uomo celibe. Convolerò a nozze mentre voi vi accingerete a leggere queste righe che spiegano perché questa mia passione verso la musica mi ha spinto a condividere un loculo di pochi metri quadrati con i mie due testimoni, prendere freddo (tanto freddo), mangiare cibo che sa sempre di cipolla e bere birra che sa sempre di acqua e fa pisciare più dell’acqua. La gente normale si dedica allo svago in modo sano, della vacanza si gode la gente, la cultura, il cibo, il relax, soprattutto il relax. Ma la gente normale non ascolta più volte di seguito Wakin on a Pretty Daze di Kurt Vile pensando di volare, non ha eiaculazioni notturne sognando Solange (non l’istrice sensitivo, ma la figona sorella di Byoncé) e non rimane senza udito per giorni perché vuole “entrare” in simbiosi con la musica degli Swans. Alla gente normale la parola “primavera” fa venire in mente le primule. A noi inevitabilmente il festival di Barcellona. Si è festeggiato, quindi, la chiusura di un cerchio e la nascita di un nuovo ciclo, speriamo meraviglioso. Non ho dubbi a riguardo, la mia futura moglie è una persona stupenda, anche se confonde spesso Elliott Smith con Elliott Murphy. Continua tu a ripetergli che uno è morto (ma è in sostanza sempre presente in casa nostra) e uno è vivo (ma è in pratica morto e non lo sa). Io e il mio compare Toni “noise is good” Anigello partiamo mercoledì mattina, per ambientarci, fare spesa di dischi al mitico Revolver in calle Tallers e per respirare la brezza prima della tempesta. Tempesta che arriverà nei giorni seguenti grazie ai live dei gruppi che pazientemente ci siamo appuntati per non rischiare di perdere nulla. L’apertura la vediamo distratti, con i Vaccines di sottofondo (un gruppo che comunque sa suonare e che sa stare sul palco) e un clima rilassato che solo i festival riescono a regalare. Mercoledì sera ci raggiunge la nostra “sorellina” Silvietta Valota e siamo così pronti per affrontare il primo vero giorno di festival.

PRIMAVERA SOUND 2013 di Nicola Guerra

Day 1, giovedì 23 maggio.
Per certi versi il giorno più deludente a livello musicale, anche se Metz, Deerhunter e Woods non deludono le mie aspettative. I primi sono dei veri animali da palco, devastanti nella loro ri-interpretazione di uno stile che nulla aggiunge agli anni novanta, ma nemmeno nulla toglie. Dagli ottanta non si esce vivi, è vero, ma dagli anni novanta è sempre più difficile (almeno personalmente) staccarsi. Difatti concediamo solo pochi pezzi ai ridondanti Tame Impala (continuo a non capire la loro popolarità, ci sono gruppi che sono anni che fanno sta roba e non hanno mai cavato un ragno dal buco, anche se apprezzo molto i loro due dischi) e corriamo a prenderci le mazzate dai tre ragazzini di Toronto. Nemmeno loro fanno nulla di nuovo, per carità, ma l’energia, la rabbia, la foga e le ottime canzoni ci danno la carica necessaria per affrontare una lunga notte. I Woods li aspettavo al varco dopo aver consumato i loro ultimi dischi (Bend Beyond e Sun and Shade su tutti) e dal vivo concedono uno spettacolo a metà fra americana e code rumorose mai stucchevoli o fuori luogo. Pop dal dolce sapore psichedelico che risvegliano la mente e il cuore. I Deerhunter sono il presente. Monomania è davvero un disco garage notturno. Vampiri indecifrabili dall’animo scuro, indole pop sporcata dal rumore. Bradford Cox non è certo un adone, tisico al limite della trasparenza, ma ha un fascino magnetico e canta da Dio. Tengono il palco per un’ora abbondante e suoneranno anche nei giorni successivi per rimpiazzare Band of Horses. Quando si dice “cavalcare l’onda”. Grandissimi. White Fence, ahimè, me lo sono perso. Dicono di un live set incendiario. Non dubito. Menomena idem. Il gruppo di Portland è cresciuto, l’ultimo disco Moms è maturo, pieno zeppo di idee (nonostante l’abbandono di Brent Knopf) e lontano dal cliché che i dischi indie siano tutti fatti con lo stampino. Morphine, TV on the Radio, ma tanta, tanta creatività che si alimenta in versione live. Io cedo alla ragione del cuore e mi vedo, per l’ennesima volta, i Dinosaur Jr. Lou è in palla, Mascis un po’ meno. Suonano sul palco del Primavera, i pezzi sono quelli che amiamo, ma suonati al rallentatore. Lamentarsi sarebbe come sputare nel piatto dove per anni ci si è nutriti. Non mi sembra giusto. Passo quell’ora a divagare fra ricordi e assoli, rumore e melodia, partecipazione e alienazione. Vorrei vedere Bob Mould a questo punto. Ma sarebbe troppo continuare a crogiolarsi nel passato, così Deerhunter (vedi sopra). Il mio compagno di merende mi trascina a vedere i Death Grips declamandolo come un gruppo devastante. Su disco non li ho mai frequentati molto, dal vivo i volumi fanno male, tanto male che mi devo allontanare dal palco (solo con gli Swans a Verona ho resistito due ore buone, accusando nei giorni seguenti una riduzione dell’udito spaventosa) per poi godermi un’orda di sballoni che ondeggiano al ritmo delle parole del vocalist di colore Stefan Burnett. Peccato solo per l’assenza del batterista Zach Hill. Sarebbe stato davvero devastante. Tasto dolente Hot Snakes. Descritti come un incontro tra Stooges e Mudhoney, suonano sempre la stessa canzone, la stessa nota, con la stessa tonalità. Dalla Monomania dei Deerhunter alla monotonia di questi quattro rockers senza stoffa. Ansiosissimi di vedere gli islandesi Dead Skeletons, rimaniamo assopiti fra fumo di candele, scheletri dipinti e musica che scopiazza i Brian Jonestown Massacre. Stanchi, assonati e anche un po’ rincoglioniti, spingiamo le membra verso l’evento. Animal Collective. Mi rendo conto di invecchiare, di essere anche un po’ controcorrente, ma questa musica futuristica poco stuzzica e tanto annoia. Vorrei stordirmi di musica e non di elucubrazioni. Abbandono esausto e convinto che domani sarà un giorno migliore. Per forza di cose; ci saranno più chitarre.


Day 2, venerdì 24 maggio.
Inizia nel migliore dei modi la giornata più attesa (almeno da noi) di questo festival. Presenze record, sole tiepido con nuvole incombenti che mai scaricheranno su di noi l’ira funesta di un temporale sul mare catalano. Kurt Vile & The Violators si presentano sul palco Heineken alle 18:10. Wakin on a Pretty Daze è uno dei dischi più belli dell’anno. Dal vivo mantiene quel grado di narcolessia psichedelica che tanto abbiamo amato e consumato nei dischi di Neil Young. Elettricità contenuta ma rilasciata a dosi pediatriche. Rimaniamo con le gambe molli e lo sguardo che scruta il mare. Il cuore invece è pronto per vedere dal vivo colui che ha fatto della diversità un motivo d’orgoglio. Non ho apprezzato certi articoli che hanno rimarcato quanto la curiosità maniacale di vedere un uomo che soffre sia maggiore della voglia di godere della sua musica. Io considero Daniel Johnston non solo un artista, ma una persona che, nonostante i suoi evidentissimi limiti, è arrivato nell’anima di tantissime persone. Che se ne sbattono della schizofrenia e della sua voce sgraziata e che (ovviamente parlo per me stesso) vedono un sogno raggiunto (la popolarità) ottenuto attraverso la continua ricerca della verità. Auditorium Rockdelux ovviamente pieno, forse anche di curiosi. Live non proprio perfetto, a fare i pignoli. Ma della verità non amiamo anche le sue debolezze? Confusi e felici ci dirigiamo al nuovo ATP (la nuova location del palco poco soddisfa le nostre esigenze) per assistere al live degli OM. Advaitic Songs è forse il disco che più ha girato sul mio piatto lo scorso anno e l’innesto del nuovo polistrumentista Robert Aiki Aubrey Lowe ha donato profondità e spessore alla musica sempre più mistica del duo. La pancia di Al Cisneros è direttamente proporzionale alla sua passione per il cristianesimo, e la musica di conseguenza ne subisce tutta l’influenza. Forse un po’ fuori luogo in questo lunapark del divertimento e delle tentazioni, ma non nascono chiese anche in luoghi abbandonati da Dio? Dopo il raccoglimento è tempo di nostalgia; la nota stonata di questa giornata ce la regalano quelle cariatidi delle Breeders. Ok disco fondamentale (per chi poi?). Ok reunion mangia soldi. Ok il fascino di quello che non possiamo più avere. Infatti non lo abbiamo. Kim Deal è una dolce presenza, vent’anni passano per tutti, figurati per un musicista. Tenero il momento, ma noi abbiamo bisogno di ricordare qualcosa, non evocare tristemente il passato. Avrei fatto bene a vedere dal vivo il mio sogno erotico, Solange. Masochisti, però, ci dirigiamo verso il palco di un’altra super reunion. The Jesus and Mary Chains, vale a dire, il rumore dentro la melodia. O viceversa. Arriva solo la bellezza dei pezzi dei fratelli Reid che abbiamo mandato a memoria (“Just like Honey” su tutti) che suonano talmente piatti da farci credere ad un playback. Perfezione. Tutto l’opposto di quello che nella musica dei Jesus abbiamo sempre cercato e idolatrato. Convinti che anche il live dei Blur sia una mezza bufala, iniziamo a credere che il mondo giri davvero attorno ai soldi (noi, poveri ingenui sognatori). Invece Damon Albarn e soci ci regalano quello che aspettavamo. Emozioni e tanta voglia di suonare. Il loro concerto è un greatest hits attualizzato, con fiati e cori, energia a profusione e impeccabile senso di appartenenza in un preciso momento storico. Il suonare qui e ora, non è solo perché si è deciso così, ma perché così è stato deciso. Dal caso, dal tempo, da qualcuno a cui Albarn regala sorrisi. Un Dio insomma, che fa si che la musica sia una continua ricerca fra le meraviglie dei tempi. Un’ora, sola, per il sottoscritto (di solito non abbandono mai i live, ma i Goat hanno strappato un’eccezione) per assistere al live degli svedesi mascherati. Tribalismi, funky, Hendrix, chitarre, cori, il dimenarsi continuo ed ossessivo di chi è rapito dalla musica. Succede poche volte. Quando accade, non vorresti smettesse mai. Così, carichi e desiderosi di vivere il momento, The Knife, ci danno il nostro ballo quotidiano; i rumori di Skaking the Habitual diventano vibrazioni, la massa di gente diventa meno fastidiosa e tutti, come una grande comune in preda al desiderio di condividere un momento, si dimena, ascolta, beve, si lascia andare a tutta la bellezza di questo festival. Avevamo scommesso e ce l’abbiamo fatta: vedere King Tuff alle 4:20 del mattino. Fino alle cinque passate i nostri corpi, ectoplasmi oramai incapaci di dare giudizi, si riconciliano con il rock’n’roll. La migliore ninna nanna per affrontare l’ultima, bellissima, malinconica e stancante giornata di questo tour de force musicale.


Day 3, sabato 25 maggio
Anche l’ultimo giorno, nonostante la defezione di Rodriguez, si conferma una grande giornata di musica. Un violentissimo live dei californiani Thee Oh Sees, dà un bel da fare alla security per tenere a bada gli scalmanati (me compreso, ammetto). Il gruppo di John Dwyer presenta il nuovo, coeso e cattivissimo Floating Coffin, ma non disdegna vecchi successi, tutti suonati alla velocità della luce. Tant’è che, finito in anticipo il proprio live set, i bis danno modo di rifiatare i presenti per prepararsi al live dei leggendari Meat Puppets. I fratelli Kirkwood, a confronto dei fratelli Reid, hanno continuato negli anni a fare musica (fino a oggi con l’ottimo Rat Farm), magari non sempre all’altezza dei capolavori degli anni ottanta, ma sincera e coerente con la propria crescita personale. Musica country mischiata a lunghe code psichedeliche. Si riprendono inoltre, con molta disinvoltura, “Plateau” e “Lake on Fire”, dimostrando quanto il giovane, illustre e biondo suicida ci avesse visto lungo. Due classici in un concerto classico ma fuori contesto. Insomma, il deserto dell’Arizona che si specchia nel mare catalano non lo si vede tutti i giorni. Per riprendere fiato dall’emozione (forse, il concerto più bello di questi 3 giorni, d’altronde vi avevo detto che a noi piacciono le chitarre), ci dirigiamo verso i Liars. Live elettronico, incentrato sul nuovo, bellissimo, WIXIW. Meno violenti e schizofrenici del solito, Angus Andrew e soci cercano di stravolgere il proprio mood, enfatizzando i bassi e minimizzando le melodie. Qualcuno storce il naso. Noi bagniamo il becco con l’ennesima birra e brindiamo alla musica dei newyorkesi. Teniamo ancora una birra in mano per l’ultimo brindisi. Quello più rumoroso. Quello più atteso e anche quello più triste perché chiude la nostra avventura. I My Bloody Valentine di Kevin Sheilds suonano nel palco peggiore. Quello dell’Heineken per la precisione. Il volume però arriva tutto. La voce, come al solito, meno. Anzi, non arriva per niente. Sarà la stanchezza, sarà che noi Loveless e Isn’t Anything (che io continuo a preferire) li abbiamo sempre ascoltati e analizzati in cuffia, magari dopo aver fumato del tabacco misto, sarà che le reunion (anche con disco, inutile, a seguito) le abbiamo sempre ritenute superflue, non riusciamo a godere l’evento. Salutiamo, quindi, il mare, il luogo e le scorie di r’n’r rimaste ed assistiamo ad una rissa fra equadoregni nella metropolitana nel ritorno verso casa. Non prima di aver visto un mare di gente ballare sulle note dei Crystal Castles. All’anno prossimo, con l’unica differenza di un bagliore al dito nella mia mano sinistra. La passione, invece, sarà sempre la stessa. (Nicola Guerra)



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