Defilandosi (solo) parzialmente dal solco tracciato dalla scuderia Glitterhouse Records, ecco che l’album di Christine Owman si colloca su interessanti binari (anche) sperimentali e caleidoscopici, e stimola la curiosità. Potremmo definire folk-noir il lavoro della svedese Christine, una “one woman band” che oltre a cantare utilizza un impianto strumentale niente male: suona il violoncello (che ha imparato a strimpellare fin dall’età di 5 anni), l’ukelele, il violino, lo xilofono, la drum-machine, il piano, la melodica, oltre che i più convenzionali chitarra, basso e percussioni. E pure quel “the saw”, riportato nel libretto interno, che non è altro che la sega raffigurata in copertina, capace di produrre, grazie a un archetto, suoni metallici che vanno ad integrare le altre sonorità ivi contemplate, non ultimi un soffuso incedere jazz e una qual certa armoniosità dissonante. La Owman, giunta al terzo capitolo (più un Extended Play) della sua avventura musicale (il primo album, Open Doors risale al 2003), compie un deciso passo in avanti verso una maturità artistica che potrebbe regalarci in futuro prove ancora più pregevoli; mostra di saper adagiare la sua musica in una sorta di “spazio della mente” cui è compito di chi ascolta sapersi adattare. Un approccio visionario e surreale, in cui l’artista opera un personalissimo sincretismo psichedelico riempiendo i suoi pezzi (autrice la ragazza sia delle liriche che delle musiche dai toni sospesi) di un coacervo inquieto di suoni ebbri e dissonanti, e decisamente poco convenzionali. Già l’iniziale “Wait, No” si porge all’ascolto come singolare folk ballad, “Fear & The Body” è una ballata cupa al contrario di “Devils Walk” che sprizza good vibration da ogni nota. Mark Lanegan presta la sua voce in qualità di ospite in “One Of The Folks” e “Familiar Act”, due dei brani più pregni di atmosfere trasversali dell’intero album, bissando in parte nello spirito – se mi è consentito il riferimento – la collaborazione con la ex-vocalist dei Belle and Sebastian, la scozzese Isobel Campbell, con cui il cantante statunitense ha condiviso tre album interessanti e trasversali come Ballad Of the Broken Seas (2006), Sunday At Devil Dirt (2008) e Hawk (2010). Ben riuscita risulta alle nostre orecchie la spigolosa “Deathbed”. Gli altri brani si assestano su un registro malinconico (penso a “Day 1“, “Your Blood“, “I’m Sorry I“) che è il fiore all’occhiello del sound Glitterhouse. Assai bella la copertina del CD e il booklet interno con testi e fotografie dell’artista. Un bel sentire per chi desidera allontanarsi dal ‘deja-vù’ sonoro imperante. (Luigi Lozzi)
✓ MUSICLETTER.IT © Tutti i diritti riservati - 19 Giugno 2013