Antoine Doinel, ragazzino di tredici anni, vive a Parigi in un modesto appartamento. I genitori si occupano troppo poco, e superficialmente, delle vicende che lo riguardano e che scandiscono la sua turbolenta crescita di adolescente “difficile”. Il padre è un brav’uomo ma si interessa unicamente delle corse automobilistiche, la madre lo trascura anche affettivamente perché molto coinvolta in una relazione extraconiugale con il suo capoufficio. Ogni gesto di Antoine, quindi, è al contempo esplicita richiesta d’attenzione e desiderio di “vendetta” nei confronti di un mondo, quello degli adulti, freddo ed ostile. Quando possibile, infatti, ruba i soldi della spesa e, di frequente, marina la scuola in compagnia del suo (unico) amico René inventandosi persino la morte della madre per giustificare un’assenza. Smascherata la bugia, viene cacciato da scuola. Non ha il coraggio di ritornare a casa e si rifugia da René passando la notte in una stamperia. Nonostante sia riaccolto dai genitori e prometta loro di comportarsi correttamente (la madre gli farà un bel regalo in caso di miglioramento del rendimento scolastico) Antoine continua ad avere problemi con il suo insegnante che l’accusa di aver plagiato una pagina del romanzo “La ricerca dell’assoluto” di Balzac che parla della morte del nonno e lo espelle. Rifugiatosi nuovamente dall’amico, decide con lui di rubare una macchina da scrivere dall’ufficio del padre al fine di pagare per entrambi una gita al mare (che Antoine non ha mai visto). Non riescono a venderla e, per di più, sono sorpresi mentre la stanno riportando al suo posto. Dopo aver trascorso una notte in cella con un deliquente ed alcune prostitute, Antoine viene rinchiuso in un riformatorio lontano da Parigi dove sperimenta una disciplina molto rigida (punizioni a suon di schiaffoni, incalzanti colloqui con una psichiatra che gli pone domande molto intime) e dove viene a sapere per bocca della madre che entrambi i genitori hanno deciso di abbandonarlo al suo destino disinteressandosi definitivamente di lui. Durante una partita di pallone fugge e corre a perdifiato per i campi fino a giungere al mare che sgomento guarda per la prima volta. Il primo lungometraggio di François Truffaut, “I quattrocento colpi” (Les Quatre Cents Coups, 1959), girato con un budget modestissimo, diventa un clamoroso successo internazionale: presentato al Festival di Cannes, da cui il regista era stato cacciato l’anno precedente per le sue aspre critiche al cinema francese, vince il premio per la miglior regia conquistando il pubblico di tutto il mondo per la tenerezza sincera, scevra da ogni compiacimento, e per la freschezza vivace dei toni, conferendo a Truffaut lo status di autore innovativo, dallo stile originale ed antiaccademico. Il film, giustamente considerato capofila della “nouvelle vague”, costituisce la trasposizione visiva delle elaborazioni teoriche che il regista francese aveva illustrato sui “Cahiers du Cinéma” (rivista fondata nel 1951 dal critico e saggista André Bazin) insieme agli altri amici e redattori Jean-Luc Godard, Jacques Rivette, Eric Rohmer e Claude Chabrol ribattezzati “Giovani Turchi” per la giovane età e per le idee irriverenti e controverse che, più o meno parallelamente all’autore parigino, passeranno alla direzione dei propri lungometraggi d’esordio. Il tutto senza nessun apprendistato tecnico preliminare ma contando unicamente sul proprio bagaglio di conoscenza acquisite nell’esercizio della critica cinematografica e su un’idea autoriale che pone al centro del fare cinema la figura del regista e il concetto di regia come scrittura per immagini, segnando, pertanto, un momento di rottura nell’ambito della settima arte che porterà alla realizzazione di film non catalogabili in schemi commerciali e burocratici e che, al contrario, saranno riconducibili unicamente alla figura del suo autore che con una forma linguistica propria esprime la personale visione del mondo. I dolori del giovane Antoine Doinel sono, quindi, l’espressione coerente dello stile e della poetica (individuale) truffautiana che rivendica una propria diversità rispetto agli altri autori del movimento (che in realtà non sarà mai tale) pur non escludendo alcuni elementi comuni individuabili senza dubbio nella predilizione per i budget ridotti e per il ricorso all’improvvisazione nelle riprese, nei dialoghi e nella recitazione. “I quattrocento colpi” condensa, pertanto, in un’ideale manifesto la pervicace concezione di Truffaut di un cinema che sia personale molto più di un romanzo avvicinandosi, piuttosto, alla forma di un diario intimo. In quest’opera, infatti, appare evidente il coinvolgimento del regista in un soggetto in larga misura autobiografico essendo Antoine Doinel l’alter ego del regista, un personaggio che, sempre interpretato da Jean-Pierre Léaud, sarà al centro nel corso degli anni di un ciclo composto da vari film ovvero dalle puntate di un ideale romanzo di formazione per immagini. Questo tipo di scelta non riguarda solo i soggetti ma anche il modo di filmare: Truffaut impiega il dyaliscope per meglio calare il personaggio nell’ambiente ed adotta un pedinamento alla maniera neorealista (in cui il découpage non sia troppo rigido) ponendo allo stesso livello di Antoine una cinepresa che opera in maniera definita “soggettiva” anche se corrisponde al contrario del procedimento soggettivo classico. Lo sguardo della macchina, infatti, non sostistuisce quello del protagonista ma lo incrocia facendo sì che incontri quello dello spettatore: in questo modo si spiega, nel sublime finale, caratterizzato da lunghe e morbide carrellate, lo zoom su un fermo immagine di Doinel-Léaud che guarda in macchina e restituisce lo sguardo al pubblico rompendo in extremis il velo della finzione. Il regista francese esprime il suo realismo soggettivo e la sua empatia con il soggetto (evidenti modelli ispiratori sono Renoir e Rossellini, più misurato l’omaggio a Vigo e Cocteau) attraverso un vocabolario tecnico che ricorre con frequenza allo zoom a stringere repentinamente sui personaggi, alla camera a spalla e alle panoramiche a schiaffo e, soprattutto, mediante dialoghi estremamente realistici, nient’affatto teatrali. Siffatte infrazioni allo stile accademico mirano a render più diretto, intimo e autentico il racconto di un film la cui importanza, comunque, non può essere circoscritta al solo essere “marchio di fabbrica” della nouvelle vague, al rappresentare unicamente lo sbocco delle intransigenti battaglie dialettiche (teoriche e politiche) condotte dall’autore sui “Cahiers du Cinéma”. “I quattrocento colpi” è sopra ogni considerazione, infatti, un’opera di straordinaria autenticità e lirismo, in perfetto equilibrio tra autobiografia ed invenzione poetica che restituisce magnificamente la condizione dell’infanzia con una descrizione delicata ed empatica senza sfociare mai nel patetismo o nell’enfasi. Le tematiche affrontate (il male di vivere giovanile, le frizioni familiari, sociali ed educative, la solitudine, leitmotiv delle opere di Truffaut) si mescolano ai ricordi e alla rappresentazione visiva in uno struggente bianco e nero dei luoghi della memoria – la Tour Eiffel parigina, i vicoli notturni del quartiere di Clichy dove abita Antoine, la scalcinata scuola, il “rotore” i cui frenetici giri sono ripresi da una mobilissima macchina da presa – confluendo in una weltanschauung che rimane sospesa tra ribellismo (purtroppo cosapevolmente sterile) e malinconico pessimismo causato dall’evidente impossibilità di impedire che la realtà ci ferisca e ci faccia soffrire. In quanto sofisticato atto d’amore nei confronti della forza creatrice del cinema che tutto trasfigura in chiave catartica sullo schermo e nei confronti della letteratura che con la parola lenisce il dolore provocato dall’ostilità del mondo esterno, “I quattrocento colpi” appare ancor oggi un’opera attraversata dalla grazia del dio del cinema (se mai ce ne fosse uno) la cui visione alimenta il rimpianto per la prematura scomparsa di François Truffaut di cui ci manca la malinconia, la grazia, la finezza. Di cui ci manca la poetica fondata sul ricordo struggente, sull’innocenza interrotta, sull’amicizia e sull’amore: sui sentimenti e sulle emozioni, cioè, allo stato puro. (Nicola Pice)
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