La sequenza conclusiva con cui Raùl si congeda dallo spettatore – e da noi spettatori – per riprendere a sgranare il rosario di un’esistenza tanto vuota quanto fallimentare sintetizza magistralmente il senso (?!) di “Tony Manero“, opera seconda del cileno Pablo Larrain. La fissità di uno sguardo privo di un qualsiasi segno emozionale, prigioniero della propria mediocrità e della propria abiezione, fornisce in maniera compiuta la misura della profonda angoscia esistenziale in cui si dibatte il protagonista del film. La passione per il ballo e la partecipazione a un concorso televisivo – volto a trovare il sosia del Tony Manero de “la febbre del sabato sera” – non è solo un obiettivo ma la sola strada per la legittimazione del sé, per il riscatto dal cono d’ombra di una vita insignificante uguale a quella di mille altre vite. Niente e nessuno può frapporsi ’sì che diventa legittimo per Raùl/Manero uccidere chiunque possa ostacolarlo. L’assurdo di una quotidianità in cui la dittatura militare annulla la coscienza critica e l’individualità contamina i gesti di cui si sostanzia il film: i passi di danza, la preparazione delle coreografie, la prova dell’abito, la tintura dei capelli, il palcoscenico del locale in cui si svolgerà l’esibizione – persino la ferocia controllata con cui si compiono gli omicidi – e la confonde come una nebulosa indefinibile restituendoci il non-sense della banalità della vita quando è attraversata dalla banalità del male. Larrain mescola i toni – l’ironia (poca) al cinismo – utilizza il finto documentarismo di una macchina (da presa) a mano quasi sempre fissa sul protagonista, alterna campi lunghissimi a primi piani di false soggettive, azzarda crossover spazio-temporali, dissemina la trama dei simboli del potere del regime, agita il corpo di Raùl/Manero come un simulacro depauperato dell’anima stessa. Senza retorica, asciutto ed essenziale, mette in scena la soffocante prevalenza del nulla. Il sogno di Raùl/Manero che svanisce rappresenta per Larrain l’impossibilità stessa del riscatto umano e nel suo sguardo, in fondo, c’è l’implicita consapevolezza dell’orrore della vita. Neanche il doppio – figura ideale a cui tendere – può garantire la persistenza di un progetto e il futuro stesso. “Tony Manero”, premiato nell’edizione del “Torino film festival” del 2008, è la prima delle opere che compone la trilogia dedicata da Pablo Larrain alla dittatura cilena a cui è seguita “Post mortem” (2010) – storia di un impiegato all’obitorio di Santiago, anche lui omicidia, che nei giorni del golpe di Pinochet vede arrivare il cadavere del presidente Allende e ne assiste all’autopsia – e “No – I giorni dell’arcobaleno” (2012), quella più speranzosa, che racconta la vittoria delle opposizioni di sinistra al referendum del 1988 voluto dalla Giunta militare allo scopo di legittimarsi e restare in carica per altri dieci anni. “Tony Manero” è, dunque, una crudele metafora dell’implacabilità della corruzione sociale e della vita stessa. Un film doloroso la cui visione, però, si rende necessaria. Cupo e squallido come il palco in vetrocemento su cui Raùl/Manero si esibirà e altrettanto gelido ma irrinunciabile. Forza, allora: “you should be dancing, yeah…” oppure salite su un tram che vi porti chissà dove. Tanto è uguale: non cambierà nulla. (Nicola Pice)
✓ MUSICLETTER.IT © Tutti i diritti riservati - 14 Settembre 2013