Se per molte garage band gli Stooges avevano rappresentato un approdo, per i Boohoos, la più stoogesiana delle band italiane, il gruppo di Detroit aveva rappresentato solo un punto di partenza. Col terzo disco i Boohoos si allontanano dalle coccole del loro vecchio pubblico e tranciano di netto il cordone che li lega al suono della Motor City. Un taglio definitivo e profondo. Rocks for Real rappresenta, contestualizzandola nel nuovo filone sleaze e street rock‘n’roll che sta emergendo contemporaneamente oltreoceano, la naturale evoluzione del muscoloso suono di Moonshiner. Alessandro Renzoni, giubbotto e guanti di pelle, abbraccia da dietro la bella Estrelita con fare vampiresco. Mano sinistra sul seno e le dita della destra che premono sul pube. È il famoso scatto di copertina di G.T. Garattoni (tra le altre sue copertine storiche quelle di Moonshiner, sempre per i Boohoos, Why don‘t you die? dei Rebels without a cause). Uno scatto da cui emerge l’idea pornoglam che si è impadronita della mitica formazione pesarese. Il suono di Rocks for Real, sgombro dalle tastiere di Paul Chain e con una nuova sezione ritmica, è meno debosciato e perverso rispetto agli standard del gruppo, più omologato al gusto del grande pubblico. Le nuove coordinate della band sembrano essere l’hair metal, il boogie rock e lo sleaze di formazioni come Hanoi Rocks, New York Dolls, Aerosmith, L.A. Guns. Un cambio di prospettiva che all’epoca gettò sgomento tra i fedeli del gruppo marchigiano, costretti a fare i conti con una banalità da AOR come Bangkok (Loveshock) e a vendere al ribasso le proprie quote azionarie sul nome Boohoos. La fresca ristampa della Minotauro che poco (anzi nulla vista la totale assenza di bonus che avrebbero permesso di indagare ulteriormente sulle ultime giornate dell’impero Boohoos) aggiunge musicalmente a quella scaletta, ci offre oggi la possibilità di riaprire le orecchie su quello che fu un disco bistrattato e giudicato all’epoca troppo severamente e con approssimazione. Quello che allora venne ritenuto un episodio opportunista di approdare alle masse assetate di slamdancing rivela, con le orecchie sgombre dal rigore filantropico che ne occludeva i canali, una scrittura capace di reggere testa a tante osannate band di hard rock metropolitano (Catwoman, Bad Loser, Heartbeat City, King‘s Promenade) e di giocare buone carte anche quando si trattava di allentare la morsa del riff per dare un po’ d’ossigeno ai polmoni (For absent friend, breve intermezzo strumentale che imita il portamento alla Since I‘ve been loving you dei Led Zep e ai movimenti III e IV della Shine on you crazy diamond dei Pink Floyd e il blues Soldier of fortune giocato su un bell’intreccio di chitarra acustica e slide-guitar). Certo, la luce sinistra che avvolgeva The Hoo si era definitivamente eclissata. Poi, tutte le altre luci si sarebbero spente a loro volta. Lasciandoci al buio. (Franco Dimauro)
✓ MUSICLETTER.IT © Tutti i diritti riservati - 1 Ottobre 2013