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The Steppes – Green Velvet Electric: compendium 1983 – 1997 (2013)

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Tra le band che, durante il revival neo-sixties degli anni Ottanta, penetrarono meglio e più a fondo nel tessuto di una psichedelia onirica e fuori dagli schemi, gli Steppes furono certamente tra i migliori, almeno per i primi anni della loro avventura. Nati come Blue Macs a Los Angeles nel 1982, gli Steppes furono la creatura di John e Dave Fallon, due fratelli di origini irlandesi ossessionati dai Beatles (John) e dagli Stones (Dave). Ma è l’incontro con Tim Gilman a dirottare la musica degli Steppes (of Russia) tra le onde di una musica più visionaria e paranoica. Il suo chitarrismo westcoastiano, unito alla sensibilità celtica che si nasconde e fa capolino tra le mille crepe della psichedelia dei fratelli Fallon allunga le ombre beatlesiane della loro scrittura fino a lambire i territori dei Quicksilver (si ascolti Bigger than life, una sorta di versione raga di She‘s leaving home). L’esordio discografico è del 1984 con un EP ancora acerbo aperto da una Kathy Macguire che sembra rincorrere l’ombra di Paul Weller lungo tutta la sua corsa coi Jam anche se l’ elegia pastorale di No names yet for Henry con i suoi richiami al folk misterioso dei Kaleidoscope di David Lindley apre già le strade a quello che sarà il suono dello strabiliante album di debutto. Drop of the creature esce, quasi a sorpresa, per la Voxx Records, baluardo del garage punk più cattivo in circolazione in quel periodo. Ed è un disco che, riascoltato oggi nella sua interezza (la doppia raccolta di cui vi racconto lo include difatti in versione integrale assieme a parte dell’ EP di debutto e a una serie di estratti da tutti gli album successivi con unica eccezione per l’ infame live pubblicato dalla Voxx nel 1991) e con le orecchie sgombre dalle scorie di garage punk che allora ci avevano intasato i canali uditivi, risulta ancora carico di un fascino misterioso e freakedelico. Sono cantilene bucoliche (Somebody waits, Sky is falling), ballate dal sapore progressive (Holding up well), planate di chitarre dall’apertura alare smisurata e voci da falchi in picchiata (Make us bleed), enormi distese di oceani byrdsiani (See you around), yogurt acidi rubati dal frigo dei Grateful Dead e di Hendrix (A play on Wordsworth) e orologi a cucù caduti dalla parete di Barrett (Black Forest Friday) che si susseguono in un infinito, incantevole carillon psichedelico. Il secondo album vede in sala regia Brett Gurewitz e viene pubblicato due anni dopo ancora per l’etichetta di Greg Shaw. La band però perde in magia ciò che acquista per dinamica e impatto pop (The One Thing è quella che, negli anni Sessanta, sarebbe stata una instant-hit). È come se lo “stewdio” fosse ancora pieno di alambicchi ma l’impressione è che qualcuno li abbia inavvertitamente (o volutamente?) lasciati aperti, facendo evaporare gran parte del principio attivo che ne ravvivava la formula. La ricetta diventa meno sapida nei dischi che salutano gli anni Novanta e con i quali gli Steppes corteggiano il grande pubblico e le grandi case discografiche a forza di ballate pop degne di George Harrison (Time Goes By) o tamarri riffoni hard rock (Let me love you, Scare you off, Pretty Debris). Qualche scossa arriva quasi a sorpresa nel 1997 con il canto del cigno fortemente voluto da Richard Allen e inciso in una sola settimana a Milwaukee con John Frankovic dei Plasticland al banco di produzione. Gods, Men and Ghosts, come del resto i quattro album che lo hanno preceduto, non è certo lontanamente accostabile a quel capolavoro che fu Drop of the Creature ma piccole cartoline di folk acido come Cornucopia o Samhain o il rampante hard rock di Can‘t come back meritano più di un passaggio sotto la puntina anche se, paradossalmente, è l’unico disco della band a essere pubblicato solo in CD. Esattamente il 18 Novembre del 1997. È quella la data riportata sul sepolcro degli Steppes. I loro quindici anni di storia sono ora racchiusi qui dentro, presentati da lunghe note di copertina accreditate a Roger Baswell ma copiate pari pari dalla biografia scritta anni fa da Richard Allen per la raccolta Rarities pubblicata dalla sua Delerium Records, adattata per l’occasione epurando le citazioni riguardanti i brani tagliati da questa raccolta. Come dire, gli Steppes valgono tanto. Ma non abbastanza. E forse hanno ragione loro. (Franco Dimauro)


✓ MUSICLETTER.IT © Tutti i diritti riservati - 25 Ottobre 2013

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