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(Ri)visti in TV – Il Casanova di Federico Fellini (1976)

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Impegnato come bibliotecario alla corte del conte di Waldstein, nel castello di Dux, Boemia, Giacomo Casanova ricorda la sua (passata) vita di spericolato avventuriero. Durante il carnevale di Venezia si accoppia con una suora per ingraziarsi ed ottenere favori dall’amante di lei, ambasciatore di Francia. Accusato di praticare la magia nera, viene arrestato e tradotto nelle orribili celle del carcere dei Piombi da cui riuscirà ad evadere rifugiandosi a Parigi, patria dei libertini. Da questo momento in poi sarà un crescendo di avvenimenti all’insegna della più dissoluta licenziosità nei confronti del sesso femminile e della “captatio benevolentiae” verso il potente di turno. Con dei rituali pseudo-esoterici imbroglia l’anziana marchesa d’Urfé che voleva conoscere il segreto dell’immortalità. Frequenta il teatro del gobbo omosessuale Du Bois dove viene rappresentato il mito della mantide religiosa. A Londra insegue una gigantessa emersa dalle acque del Tamigi, a Roma partecipa ad una gara orgiastica nel palazzo del volgare principe Del Brando. S’imbatte e s’accoppia instancabile con le donne (e le donnette) che trova sul suo cammino nei luoghi più impensati di mezza Europa: solo la dolce Henriette, forse, le rimane veramente nel cuore. Da vecchio ottiene ospitalità e lavoro dal conte di Waldstein la cui corte rallegra – di tanto in tanto – declamando componimenti poetici sebbene sia spesso oggetto del sarcasmo e dell’ostilità della scostante fauna che compone i cortigiani del tetro castello boemo. Sempre più affaticato, aspetta, dunque, la morte tra deliri senili, rimpianti e vagheggiamenti. Il Casanova di Federico Fellini viene alla luce nel 1976 dopo un’interminabile serie di ripensamenti del regista e, soprattutto, di complicazioni legate ai continui cambi nella produzione (dopo il ritiro di De Laurentiis, prima, e della Cineriz di Angelo Rizzoli, poi, fu Aurelio Grimaldi a subentrare definitivamente concedendo all’autore di girare a Cinecittà ma imponendo sul set l’uso della lingua inglese) e costituisce uno spartiacque – negativo – nella carriera felliniana. Il successo popolare ottenuto con Amarcord nel 1973 sembra lontano e, purtroppo, a partire proprio da questo film in poi le opere del regista non solo non avranno più un grande riscontro da parte del pubblico (sempre più attratto dal fiorente cinema di genere degli anni ‘70 e dalla comparsa delle nascenti reti televisive private) ma saranno oggetto di polemiche spesso eccessive e di critiche ingiustificate ed ingenerose. Il cinema italiano, infatti, ha iniziato il suo lento ed inesorabile declino (incapacità degli autori più importanti di rinnovarsi e crisi produttiva i motivi principali) ma Fellini, fedele soltanto al suo immaginario d’artista inimitabile, a dispetto di tutto, continua in maniera coerente a essere faber eccentrico di figurazioni oniriche dal dirompente impatto visivo. Nel Casanova, incurante delle pretestuose animosità d’una parte della critica provocatrice e astiosa, che sembra avergli voltato le spalle, il regista dà ampio sfogo alla visionarietà facendone un punto di non ritorno della propria poetica e conquistando lo status di spregiudicato creatore di forme per antonomasia. Come probabilmente non mai e mai più nella produzione felliniana, infatti, il film è ricolmo di effetti suggestivi, compressi nelle inquadrature da un eccellente montaggio interno, grazie all’aiuto sapiente di straordinari professionisti: Danilo Donati fornisce costumi di ampollosa ricercatezza e scenografie maestose quanto prospetticamente anomale – un mare notturno di teli di plastica nera e decine di lampadari che pendono dal soffitto del teatro ad esempio – la fotografia bluastra di Giuseppe Rotunno cristallizza il carattere fosco, l’insistita ripetizione dei toni melodici della musica di Nino Rota ammanta la storia di un senso di straniante meccanicità, gli attori (Donald Sutherland, in primis, ma anche il resto del cast) assumono le sembianze di spersonalizzati burattini meccanicamente determinati all’accoppiamento. L’humus del film, quindi, non è la “Histoire de ma vie” del celebre libertino veneziano (alla fine solo uno spunto narrativo) ma la debordante immaginazione del suo autore che perviene ad una elaborazione molto complessa e densa di simbolismi. L’incessante vagabondare del “Casanova” – suddiviso in dieci capitoli quali altrettante tappe del viaggio – costituisce, pertanto, un pretesto per decostruirne il mito, immergendo il personaggio in luoghi astratti e lugubri dove viene in contatto con individui grottescamente deformati e, dunque, alla stessa maniera irreali. Il protagonista, infatti, appare come un cicisbeo senza qualità intrinseche che riesce a farsi strada solo grazie alla prestanza fisica, allo sfoggio d’una sterile retorica e all’animus da avventuroso truffatore che lo rendono il prototipo dell’italiano narciso ed infingardo. Persino l’abilità amatoria del Casanova, sua dote principale, viene rielaborata da Fellini in una chiave del tutto inedita e personale che nega al personaggio qualsiasi capacità seduttiva identificandolo, piuttosto, quale mero strumento di piacere sessuale, sfruttato dalle innumerevoli donne che incontra per poi esserne accantonato fino al’oblio. L’autore non a caso lo rappresenta come una sorta di stravagante automa al pari dell’uccello meccanico di metallo che accompagna le sue performance erotiche circondato da figure altrettanto inautentiche. Sono personaggi spettrali, quelli del film, che popolano un continente oscuro, freddo ed indefinibile (l’Europa percorsa in lungo e largo dal libertino veneziano) e, soprattutto, le sue partners sono donne grevi, bizzarre, segnate da menomazioni fisiche o mentali (una monaca, una vecchia marchesa, una sconosciuta in abiti maschili, una gigantessa da baraccone, una gobba ninfomane), evidenti emanazioni dell’inconscio di Fellini, un “casanova” in sedicesimo che non è mai uscito dall’utero materno e che mette in scena la propria crisi di maschio attraverso la rappresentazione allucinata di un universo femminile che non riesce a comprendere e che, sembra suggerirci, non può essere davvero compreso. Infatti, fra uomo e donna al di là della ripetitiva automazione del gesto sessuale non c’è altro: né comunicazione né amore o, almeno, affetto. La solitudine ed il vuoto emotivo sono, pertanto, gli elementi che definiscono nella vecchiaia il Casanova (al pari di tutti gli esseri umani). L’unica donna che gli resta accanto, nell’oblio del sogno, è una bambola meccanica dalle forme muliebri che, però, è priva del soffio vitale dell’anima: ella soltanto può possedere, restandone posseduto a sua volta in un processo d’identificazione che ne determina la completa somiglianza nell’inquietante inquadratura finale in cui si compie il freudiano ritorno all’inorganico ed il mito si dissolve completamente sotto le fattezza di un gelido fantoccio senza vita. “Il Casanova”, dunque, è la messa in scena della scomparsa dell’eros depauperato da qualsiasi sublimazione romantica e, contiguo nel suo culmine, piuttosto, alla morte. “…che uomo strano che tu sei, Giacomo: non puoi parlare d’amore senza immagini funebri… La più dolce delle morti? Ti vuoi annullare in amore? Forse che più di amare, tu desideri di morire?…” dice, infatti, la scienziata Isabella al Casanova dopo che egli le aveva detto che il suo sorriso era ilare e mortuario paragonandolo a quello delle figure rappresentate sulle tombe etrusche. Un senso di finitudine è quindi alla base dell’opera e, d’altra parte, Fellini è stato sempre sedotto dall’impenetrabile mistero della morte e dall’impossibilità della sua rappresentazione visiva: al posto della gioiosa sfilata finale in Otto e mezzo il regista aveva inizialmente pensato di raffigurare il trapasso come un viaggio in treno; il mai edito “Il viaggio di G. Mastorna” era tutto incentrato sul racconto di un morto che ha appena iniziato il viaggio nell’Aldilà e in Toby Dammit la folle corsa in auto è preceduta dalla preliminare manifestazione dei presagi della morte stessa. La sequenza finale de “Il Casanova…”, però, costituisce un tentativo originale, mirabile nella sua visionarietà, di rappresentazione dell’altroquando mortuario come forse nessun altro nella storia del cinema. Chiuso nella sua stanza del castello boemo di Dux, un Casanova ormai invecchiato si chiede se potrà mai più tornare nella natia Venezia. Le immagini successive mostrano il protagonista, di nuovo giovane, che procede veloce in una spettrale Venezia, ricoperta da un ghiaccio di plastica, in cui è sepolto il busto di Venere, simbolo di una femminilità sempre più nascosta ed evanescente al pari delle donne che scendono da una scalinata e scompaiono per riapparire vicino a un finto Rialto. Dopo la rapida comparsa di una carrozza dorata in cui siedono il papa e un’altra donna, Casanova incontra l’automa Rosalba con la quale inizia a ballare sulle note di un tremolante carillon: sembrerebbe aver imboccato l’ingresso di un ipotetico Ade dove continuerà la danza fino a diventare un manichino immobile. È questa la morte (per Fellini): un progressivo ondeggiare tra il sogno e la realtà, tra i ricordi e i desideri che lentamente si congelano fino all’immobilità, fino al momento in cui la vita svanisce nell’eternità del nulla. (Nicola Pice)


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