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Recensione: Fabrizio De André – La Buona Novella (1970)

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A proposito del grande Fabrizio De André (cantautore nato a Genova nel 1940 e scomparso a Milano nel 1999) molti dicevano che fosse il Bob Dylan italiano, ma c’era anche chi – come la mai dimenticata Fernanda Pivano – sosteneva pure il contrario, ovvero che Bob Dylan fosse il Fabrizio De André americano. Un’affermazione decisamente audace, ma non per questo infondata se consideriamo il talento ma soprattutto la complessità umana dei due personaggi che, sovente, nel corso delle loro rispettive carriere, hanno dato vita a capolavori unici e irripetibili della storia della popular music. Gemme che hanno saputo sorprendere una società molto spesso stereotipata e poco attenta al particolare, alla diversità, al senso “altro” delle cose e della vita. È il caso, per esempio, de La Buona Novella di De André, un concept album incentrato sulla cristianità che, prendendo spunto dai vangeli apocrifi, celebra e commemora rispettivamente la nascita e la morte di Gesù di Nazareth attraverso una vivida allegoria composta da dieci tracce (cinque per lato, qualora aveste la possibilità di ascoltarlo su vinile) della durata complessiva di poco più di trentacinque minuti. Una miscela ben equilibrata di musica sinfonica, canti liturgici e cantautorato folk italiano che non perde mai di tensione e intensità, grazie alla voce inconfondibile di Faber (così soprannominato dall’amico e attore Paolo Villaggio) e a una scrittura lirica e musicale che, quantunque erudita e complessa, riesce a coinvolgere l’ascoltatore fin dalle prime battute. Ne è la prima lampante dimostrazione la brevissima ode al Signore, “Laudate Dominum”, che introduce “L’infanzia di Maria”, brano che ti scoppia subito nel cuore e da cui viene fuori la figura di una Maria nata – secondo il protovangelo di Giacomo – per grazia dello spirito divino e per questo motivo sacrificata al Tempio del Signore e costretta a vivere un’infanzia difficile:“Forse fu all’ora terza, forse alla nona, cucito qualche giglio sul vestitino alla buona, forse fu per bisogno o peggio, per buon esempio, presero i tuoi tre anni e li portarono al tempio […] E quando i sacerdoti ti rifiutarono alloggio avevi dodici anni e nessuna colpa addosso: ma per i sacerdoti fu colpa il tuo maggio, la tua verginità che si tingeva di rosso.” Ma sarà la traccia successiva,“Il Ritorno di Giuseppe” (“Ai tuoi occhi, il deserto, una distesa di segatura, minuscoli frammenti della fatica della natura. […] E lei volò fra le tue braccia come una rondine, e le sue dita come lacrime, dal tuo ciglio alla gola, suggerivano al viso, una volta ignorato, la tenerezza d’un sorriso, un affetto quasi implorato”), a rendere giustizia al sacrificio e alla sofferenza della Vergine e alla fatica di un povero Giuseppe, appena tornato dal lavoro, pronto a sostenere “Il Sogno di Maria” (“Lo chiameranno figlio di Dio: parole confuse nella mia mente, svanite in un sogno, ma impresse nel ventre”), canzone catartica e di una bellezza struggente che si conclude con il verso “E tu, piano, posasti le dita all’orlo della sua fronte: i vecchi quando accarezzano hanno il timore di far troppo forte” e che schiude le porte a una “Ave Maria” che inneggia alla donna in quanto madre: “Ave Maria, adesso che sei donna, ave alle donne come te, Maria, femmine un giorno per un nuovo amore povero o ricco, umile o Messia. Femmine un giorno e poi madri per sempre nella stagione che stagioni non sente”, ed è esattamente in questo modo che si chiude la prima parte del disco. Da questo momento in poi si sprofonderà, sempre di più, in un vortice di emozioni che – a partire da “Maria nella bottega di un falegname” (una conversazione tra Maria, il falegname e la “gente”) alle conclusive “Il testamento di Tito” (il buon ladrone pentito e crocefisso accanto a Gesù) e “Laudate hominem” (che elogia l’uomo poiché fratello e figlio di un altro uomo) – esalterà la Passione di Cristo e il dolore degli ultimi e dei dimenticati: basta ascoltare le parole di “Via della Croce” (“Ma gli occhi dei poveri piangono altrove, non sono venuti a esibire un dolore che alla via della croce ha proibito l’ingresso a chi ti ama come se stesso”) oppure di “Tre madri” (”Con troppe lacrime piangi, Maria, solo l’immagine d’un’agonia: sai che alla vita, nel terzo giorno, il figlio tuo farà ritorno: lascia noi piangere, un po’ più forte, chi non risorgerà più dalla morte“) per rendersene conto immediatamente e per scoprire, oltretutto, la sensibilità di un cantautore e di un poeta come pochi in Italia (e forse anche nel mondo) ce ne sono stati. Un personaggio colto, umile e mai banale: sicuramente una delle figure più importanti della cultura italiana del Novecento. Un cantastorie – consentitemi l’uso di questo appellativo, nonostante possa sembrare riduttivo – che nel 1969, in piena contestazione studentesca, decise di immergersi nella scrittura di un album basato sulla nascita di Gesù e del cristianesimo, sottolineando, tuttavia, l’aspetto più umano e meno spirituale di questo avvenimento religioso. E a chi gli chiese perché proprio quella scelta in quel periodo storico così agitato e rivoltoso, il libertario Fabrizio De Andrè rispose dicendo che, secondo lui, Gesù di Nazareth è stato ed è rimasto il più grande rivoluzionario di tutti i tempi, un signore che molto tempo prima aveva combattuto contro gli abusi del potere, contro i soprusi dell’autorità, in nome di un egalitarismo e di una fratellanza universali. Prodotto da Roberto Dané e arrangiato da Gian Piero Reverberi (anche se nel booklet originale troverete scritto Giampiero Reverberi), La Buona Novella vedrà la luce nel 1970 e con il passare degli anni si confermerà – malgrado quel titolo apparentemente reazionario – uno dei lavori discografici più anarchici, rivoluzionari e appassionanti della carriera del musicista e cantante genovese ma anche della musica d’autore italiana. Insomma, un disco natalizio, ma non solo. Con buona pace di credenti e non credenti. (Luca D’Ambrosio)

Articolo pubblicato sul numero di Natale 2013 del periodico polacco La Rivista.


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