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Recensione: Low – The Great Destroyer (2005)

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Dopo Things We Lost In The Fire (2001) e Trust (2002) – opere di spirituale bellezza in grado di comprimere l’essenzialità dello slowcore e il torpore della psichedelia all’interno di strutture armoniche dai rimandi pop -, i Low aggiungono un altro straordinario tassello alla loro encomiabile evoluzione musicale. Un album – come dire? – “diverso” dai lavori precedenti (a causa delle sue nervature essenzialmente rock e discretamente noise), tuttavia profondo e deflagrante, flemmatico e immateriale come sempre. Un disco che procede instancabilmente lungo i solchi acustici della forma canzone (la pregevole When I go deaf e l’eccelsa Death of a Salesman) ma capace di esplorare altre dimensioni sonore dove le ritmiche si infervorano e le chitarre si inaspriscono (Monkey, Everybody’s song). The Great Destroyer, settimo full-lenght del trio di Duluth prodotto da David Friedmann (The Flaming Lips e Mercury Rev), è una sorta di sintesi artistica che fonde (o distrugge?) la mitezza dei Beatles, il disagio dei Velvet Underground e l’impeto dei Sonic Youth. Grazie al talento di Alan Sparhawk (voce e chitarra), Mimi Parker (voce e percussioni) e Zak Sally (basso), ecco a voi un’altra meraviglia senza tempo con la quale, probabilmente, faremo i conti alla fine dell’anno. [1] (Luca D’Ambrosio)

[1] Recensione pubblicata su ML – Update n. 3 del 15 marzo 2005


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