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Recensione: Robert Wyatt – Cuckooland (2003)

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Dopo l’esperienza collettiva con i Soft Machine e l’ineguagliabile Rock Bottom del 1974, Robert Wyatt suggella la propria carriera da solista con un album ancora una volta insolito e di una bellezza non comune, Cuckooland. Un’opera intima e commovente, dagli accenti meno sperimentali del precedente, che ripropone, a sei anni di distanza da Shleep, quello stesso concetto di musica senza schemi: composizioni che scorrono come pellicole in bianco e nero al ritmo suggestivo di un jazz fumoso e allo stesso tempo confortante; partiture deliziose e sussurranti espressioni della memoria che si estendono dentro ambienti etnici e spirituali. Un lavoro dai tratti romantici e dalle fogge stravaganti che diffonde, malgrado i toni offuscati e una latente inquietudine, una silenziosa e incantevole vivacità. Caratteristiche che fanno di Cuckooland un disco semplicemente adorabile, madido di poesia e di costumata partecipazione politica, che, tuttavia, prende le dovute distanze da quelle oratorie compiacenti e da quelle celebrazioni calcolate tipiche del musicista impegnato. Perché Wyatt non è il classico personaggio che cerca a tutti i costi le luci della ribalta. Lui è diverso dagli altri, se ne sta tranquillo nella sua casa di Lincolnshire, insieme a sua moglie Alfreda Benge (Alfie) e guarda questo mondo con lo sguardo di chi ha sofferto (sono più di 30 anni che l’ex Soft Machine è costretto a vivere su una sedia a rotelle)[1], di chi racchiude una speranza nel cuore, di chi è riuscito a trovare nella musica il seme dell’esistenza, di chi, nonostante i numerosi ricordi d’intolleranza, confida ancora nella saggezza di questa umanità. Così, con la complicità della moglie Alfie, nascono canzoni come Old Europe (liberamente ispirata alla vicenda d’amore tra Miles Davis e Juliette Greco) che rende omaggio alla Parigi di un tempo, rifugio di artisti americani poco stimati in patria. C’è poi la stralunata e teatrale Cuckoo Madame, mentre Forest è una sorta di blues onirico e narcotico: un tributo alle popolazioni di etnia rom. In Foreign Accents, invece, le parole diventano musica e combattono le falsità ideologiche anglo-americane, quasi un upload – come lui stesso ha affermato – di un vecchio brano di Old Rottenhat (1985), The United States Of Amnesia. Le cover di Raining in My Heart (Bryant & Bryant) e Insensatez (di Jobim/Moraes con il canto evanescente di Karen Mantler) sono chiari esempi d’integrazione culturale. La conclusione infine è affidata a una versione strumentale di un brano arabo, La Ahada Yalam (No-One Knows), sviluppato magnificamente dal “soffio vitale” del jazzista israeliano Gilad Atzmon e dal contrabbasso di Yaron Stavi: l’ultimo lembo di questo meraviglioso luogo musicale. Settantacinque minuti di preziose armonie abbozzate dentro le mura di casa e riprodotte nello studio di Phil Manzanera, con il supporto dei soliti amici (Brian Eno, Paul Weller e David Gilmour) e di un nugolo di musicisti che ruotano attorno al circuito jazz d’oltremanica, tra cui Annie Whithead che suona il trombone nel magnifico brano d’apertura Just a Bit. Insomma, Cuckooland è un posto fantastico in cui Wyatt trafuga le proprie certezze e le proprie paure. Una terra sconosciuta, l’unica in grado di filtrare “realtà e immaginazione”, la sola capace di concepire inconsuete e impalpabili forme di comunicazione di questo nuovo millennio. E mi raccomando, non lasciatevi distogliere dalla durata eccessiva del disco, perché soltanto l’ardente pazienza vi porterà al raggiungimento di un intenso piacere. Minuto dopo minuto, fremito dopo fremito, nota dopo nota. (Luca D’Ambrosio)

[1]Recensione pubblicata su ML – n. 21 del 6 giugno 2005


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