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Recensione: John Parish – Once Upon A Little Time (2005)

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Sono le languide e brevi note di Salò a far schiudere questa nuova fatica di John Parish. Un lento succedersi di tasti in bianco e nero che sembrano restare sospesi tra il cielo e la terra, per poi abbandonarti improvvisamente, lasciando il passo all’incedere pigro, ossessivo e vacillante di Boxers, dove il canto biascicato di Parish incontra le morbide linee di basso di Giorgia Poli, le cadenze ritmiche di Jean-Marc Butty, le tastiere di Marta Collica e la slide guitar di Jeremy Hogg. Passaggi di deragliante torpore come le strumentali Stranded e Water Road che riecheggiano certe atmosfere colte/depressive di Joseph Costa e Lindsay Anderson (in arte L’Altra), mentre Choise e Glade Park trasferiscono le emozioni in quei territori musicali bazzicati dagli Eels e dai 16 Horsepower. C’è poi il folk pop, elettrico e dalle code sixties, di Even Redder Than That che assieme a Kansas City Electrician incalzano quelle scie post-country tracciate da gruppi come Walkabouts, Yo La Tengo, Giant Sand e Lambchop. Dopo How Animals Move del 2002, Parish realizza un disco intimo e familiare che riesce tuttavia a sfoggiare toni lisergici (Somebody Else e The Last Thing I Heard Her Say), fragori a bassa fedeltà (Even Redder Than That) e vigori indie rock che in alcuni momenti fanno pensare al miglior Beck (Sea Defences). Registrato da Marco Tagliola tra Brescia, Bristol e Copenhagen, Once Upon A Little Time (titolo suggerito dalla figlia di Parish, la piccola Hopey) è un lavoro che non manca d’ispirazione e di compattezza, capace di racchiudere delle piccole gemme musicali che raccontano la vita così com’è: seria, triste, allegra e altre volte frivola. (Luca D’Ambrosio)

[1]Recensione pubblicata su ML – n. 23 del 12 dicembre 2005


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