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Shoegaze: l’arte di guardarsi le scarpe.

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“Ero innamorato delle loro (dei My Bloody Valentine -ndr) melodie pop, e nel nostro primo lavoro il mio amore è evidente. Sono ancora molto importanti per me, ma se rimani bloccato su quel punto devi essere un giornalista molto pigro… e se è tutto quello che vuoi sentire, ti perderai molto del nuovo album”. Chi ci rimprovera scherzosamente è Emil Nikolaisen, leader del collettivo norvegese Serena-Maneesh, annoiato dai confronti tra il suo gruppo e quello di Kevin Shields, che lo incalzano dall’uscita del loro primo album. Serena-Maneesh, pubblicato nell’autunno del 2005 e accolto con entusiasmo da critica e pubblico, era in effetti un chiaro omaggio a band shoegaze quali MBV, Lush, Slowdive, e al tempo stesso un tentativo di aggiornare tale sound. La critica di Nikolaisen è assolutamente legittima. Basta un ascolto al loro eccellente No 2: Abyss In B Minor, uscito a fine marzo 2010 per la mitica etichetta 4AD, per realizzare che alla band di Oslo i panni di “cloni dei MBV” stanno stretti. Abyss In B Minor, afferma il musicista (che ci consiglia di acquistare nella versione in vinile), è stato influenzato da “La musica europea. L’eccentrico pop francese. Morricone. Il krautrock. In effetti ho lavorato con René (Tinner), che ha gestito lo studio dei Can per diversi anni. Il rock’n’roll in tutti i suoi suoni e forme è ciò che mi eccita. I colori del passato, il sentimento del presente, lo stendere le braccia verso il futuro. Il rock’n’roll in tutta la sua crudezza, pienezza e bellezza”. E difende l’originalità della sua arte: “Devi raccontare la tua storia, cantare con la tua voce, dipingere il tuo mondo. Sognare il tuo sogno. Sì, potremmo fare qualcosa di stilisticamente diverso la prossima volta, ma la musica sarà sempre nostra, c’è la nostra firma nella melodia e nel ritmo”. Ammette comunque che i My Bloody Valentine sono stati un ascolto fondamentale per lui: “La prima volta che ho ascoltato i MBV è stata come un sogno che avevo già sognato. Il suono, la sensazione di un momento che avevo già vissuto. Era strano ed ossessionate”. Ma cita pure, tra i suoi ascolti più influenti, i soliti Velvet Underground (“Un mio insegnante mi suonò Heroin durante una lezione di musica, quando ero un teenager, e fui scosso da un sentimento perverso di paura ed eccitazione”), e ancora The Stooges, Sonic Youth, Jesus and Mary Chain, Lush. Ma anche gli AC/DC, il death metal, il folk norvegese con cui è cresciuto, e molto altro. I S-M sono una delle band di punta della nuova ondata shoegaze che da qualche anno ha travolto la scena indie internazionale. Più che un’ondata, un’alluvione. Tante infatti sono le band contemporanee che si rifanno sfacciatamente a MBV & C. che la solita stampa musicale britannica ha pensato bene di coniare un nuovo termine: Nu Gaze. Tra band che ripropongono sonorità quasi identiche ai modelli originali, e altre che invece intrecciano tali influenze con altri generi, i nomi di maggior rilevo sono: M83 (gruppo francese che mixa influenze shoegaze ed electronica), The Brian Jonestown Massacre (allucinati californiani neo-psichedelici; il loro album più recente è Who Killed Sgt. Pepper?), i newyorchesi A Place to Bury Strangers, The Big Pink (duo londinese, su 4AD, autore del brano di successo Dominos), gli svedesi The Radio Dept (dei quali è da poco uscito il terzo album, Clinging to a Scheme, per Labrador Records). “Mi piacciono alcune di queste band”, ci confida Mark Gardener, voce e chitarra dei Ride, una delle band più popolari dell’originaria scena shoegaze. “Penso però che ricreare semplicemente quel suono sia inutile e non così interessante. Ma se lo rendi tuo, come ha fatto una band quale i Sigur Rós, e lo porti al livello successivo, allora è qualcosa di molto speciale. Quando li ascolto, i Sigur Rós mi portano in un posto dove non sono mai stato, creano un loro mondo. Mi piace anche il mix di suoni elettronici degli M83”. “Credo che il lascito della scena shoegaze sia forte, e lo sento spesso nella musica di oggi”, continua Gardener, il quale sta attualmente lavorando alla colonna sonora del film The Story Of Creation Records, che uscirà a fine anno. “Penso che gran parte della buona musica dell’iniziale periodo shoegaze abbia superato il test del tempo. Ora è un termine abusato. È inteso come genere musicale, mentre all’epoca era una critica da parte della stampa. I performer erano persi nel loro rumore, nelle canzoni, nelle atmosfere, portando con loro l’audience e facendoli sentire come se avessero potuto essere loro sul palco”. Gli fa eco, sbottando, Emma Anderson dei Lush: “Mi ha sempre scocciato che la musica e le band shoegazing non abbiano ricevuto più riconoscimenti (a parte i MBV). Molte band venute dopo di noi secondo me suonavano come noi o shoegazing: Mogwai, Death in Vegas, anche i Radiohead a tratti, ma la stampa e le stesse band non dichiaravano mai che amavano quella musica. Era diventata quasi una vergogna, perché il termine implicava qualcosa di un po’ sciocco”. Shoegaze (o shoegazing) era un termine coniato nel 1990 dalla stampa musicale inglese per incasellare band quali Ride, Lush, Chapterhouse, Slowdive e Moose, e in seguito gli stessi MBV, anche se Shields ha sempre rifiutato l’etichetta (in effetti i MBV, nati nel 1983, ne sono stati i precursori). Miki Berenyi, voce e chitarra dei Lush, ci illumina sull’origine del termine: “Shoegazing (=fissare le scarpe -ndr) è stato ispirato dai Moose. Si riferiva al fatto che le band citate fissavano il pavimento (non le scarpe, ma la pedaliera delle chitarre -ndr) e stavano fermi sul palco. Inoltre ‘gazing’ ha un suono un po’ malinconico, come ’stargazing’ (=guardare le stelle -ndr). Ma fu senz’altro usato contro tali band come una critica per non essere più divertenti e accattivanti con la folla”. Un altro termine affibbiato dalla stampa a questa scena (che era un fenomeno per lo più londinese) era The Scene That Celebrates Itself (la scena che celebra sé stessa -ndr). Afferma nuovamente la Berenyi: “Sempre i Moose, credo, dovevano compilare uno di quei questionari ‘cosa state ascoltando’ per NME o Melody Maker. I loro manager di allora lo compilarono al posto loro, e scrissero una lista di band che amministravano e parecchie che avrebbero voluto amministrare: Lush, Chapterhouse, Curve, etc. I giornalisti della rivista pensarono che fosse molto strano che una band compilasse una lista di preferiti interamente composta da contemporanei, e quindi il giornalista Steve Sutherland coniò tale termine. Ad essere corretti, credo che lo intendesse come un complimento, cioè che non ci pugnalavamo alle spalle a vicenda, andavamo ai concerti l’uno dell’altro e andavamo d’accordo”. Secondo Emma Anderson, entrambi i termini erano “abbastanza umoristici, ma il guaio con ’shoegazing’, inventato più per descrivere un genere musicale che un gruppo di persone, era che diventò un termine derisorio”. Gli elementi distintivi del sound shoegaze erano quelli del prototipo Loveless (il capolavoro dei MBV), ovvero strati di chitarre distorte (muro del suono), cantato etereo e dolce (con alcune eccezioni, tipo i Swervedriver), melodie sognanti, che andavano a creare una sorta di neo-psichedelia dissonante. “Se dovessi scegliere una canzone”, ci confida la Anderson, “Pearl dei Chapterhouse dimostra molto bene tutto ciò”. Miki aggiunge che “la cosa del muro del suono era pratica per noi, perché non avevamo nessuna fiducia [nelle nostre capacità di] cantare e suonare i nostri strumenti. A parte Chris (Acland, morto suicida nel 1996. Poco dopo i Lush, sconvolti dal dolore, si sciolsero -ndr) che era un batterista fantastico. Quindi soffocarli con effetti e rendere tutto un po’ offuscato ci andava benissimo. A essere sinceri, non era una cosa premeditata. Questo era il tipo di musica che ascoltavamo, il tipo di musica che facevamo ed era divertente avere aggeggi ed effetti con cui giocare”. “Il bello (di Loveless -ndr) è l’umore, il mood. I suoni non sono così importanti. Sono solo amplificatori Marshall e Vox (…). È davvero super essenziale. Stava tutto nel modo in cui suonavo la chitarra. Ciò che era buono (del disco) era che possedeva un sentimento molto forte che l’attraversava tutto”, ha dichiarato Kevin Shields a Filter Magazine nel 2003. Il 4 novembre del 1991 usciva (a tre anni dal precedente, Isn’t Anything) il secondo album degli anglo-irlandesi My Bloody Valentine, l’epico Loveless. La sua realizzazione, si dice, costò alla Creation Records 250 mila sterline (e la salute di diversi membri dello staff), quasi provocando la bancarotta dell’etichetta. Una leggenda smentita dallo stesso Shields, per altro, il quale ritiene che Alan McGee, il boss della Creation, abbia gonfiato la vicenda apposta perché “pensava sarebbe stato figo”. Sta di fatto che ci vollero più di due anni, trascorsi in 19 diversi studi, per registrare il disco. E che durante il processo furono licenziati un buon numero di ingeneri del suono, a cui comunque (a eccezione di Alan Moulder e di Anjali Dutt) l’incredibilmente pignolo Shields, leader e mente della band, permetteva a mala pena di “premere i bottoni”. McGee sperava che i MBV avrebbero avuto lo stesso impatto dei Nirvana. “Ricordo quando uscirono i Nirvana”, ha dichiarato in una recente intervista, “Stavamo lavorando a Loveless, e sinceramente pensavo che sarebbe stato il prossimo Nevermind, che avrebbe cambiato tutto. E fu così, in un certo senso, ma successe vent’anni più tardi. Pensavo davvero, come l’avevo pensato per Psychocandy (degli scozzesi Jesus and Mary Chain -ndr), che fosse una rivoluzione”. L’album però non ottenne il successo commerciale auspicato, e, poco dopo la sua pubblicazione, la Creation scaricò la band. Fin da subito, invece, Loveless fu accolto benissimo dalla critica, e nel corso degli anni ha conquistato, meritatamente, un posto nello scaffale delle pietre miliari del rock, oltre ad essere stato citato come influente da innumerevoli artisti (tra cui Robert Smith, Billy Corgan, Trent Reznor e Radiohead). Con Loveless i MBV ridisegnarono la musica rock, espandendo l’intuizione che avevano avuto proprio i JAMC nel già citato Psychocandy del 1985. Ma mentre la band scozzese si era limitata a sporcare soavi melodie pop con il frastuono di chitarre distorte, mantenendo però la forma canzone, i MBV andarono oltre. Il loro è un magma sonico in cui melodia e rumore, dolcezza e violenza, raggiungono un equilibrio assoluto, e che fluisce da una traccia all’altra quasi senza barriere, più affine a certa avanguardia che agli stilemi della musica pop. Caratteristico della band (e dei successivi epigoni) era il “muro del suono” creato dalle chitarre. Sepolte sotto di queste, le voci di Shields e di Bilinda Butcher, usate essenzialmente come strumenti (i testi erano deliberatamente oscuri). Lo stile vocale della Butcher era sognante e voluttuoso, e pare che ciò fosse causato dal fatto che erano soliti registrare le voci alle “7:30 di mattina”. Loveless, ibrido di psichedelia, dream-pop e noise, influenzato tanto dai Velvet Underground quanto dai Beatles (e sparato a volumi talmente alti che il tour promozionale è ricordato come il secondo più rumoroso nella storia del rock), è considerato la vetta più alta raggiunta dal genere shoegaze. Anche in Italia il sound shoegaze ha attecchito piuttosto bene nel terreno della scena indie. Tra i primi a proporre una versione italiana del genere, si ricordano i milanesi Soon, autori di due dischi incantevoli, Scintille (del 1995, prodotto dalla già citata Anjali Dutt) e Spirale (1997), prima di sciogliersi nel 1999. Il nome stesso della band, ricorda Odette di Maio, voce e chitarra, era “preso in prestito dal titolo di una canzone dei MBV”. “La scena shoegaze ha sicuramente influenzato le nostre sonorità”, conferma la cantautrice, “per lo più a livello chitarristico. Quelle band avevano dei riff con un suono particolare, molto distorto ma nello stesso tempo non troppo invasivo. Creavano un tappeto armonico su cui la voce poteva sussurrare qualsiasi cosa. Ricordo anche Ride, Lush e Stone Roses tra le nostre prime influenze. Ma anche band più marcatamente pop (o Britpop) sono state determinanti per il nostro suono”. “Penso fossimo tra i primi (in Italia) ad usare il modello del cantato femminile (prima in inglese e poi in italiano) su un tappeto di poderose chitarre distorte! La vocina leggera e ‘pulita’ che mi contraddistingueva esagerava l’effetto ‘contrasto’, rendendo la nostra musica pop ma allo stesso tempo aggressiva!”, conclude Odette, che, dopo numerose collaborazioni post-Soon, sta lavorando ad un album, cantato in inglese, in collaborazione con un musicista belga. Tra i gruppi più recenti, consigliamo i deliziosi Cosmetic, di cui l’anno La Tempesta ha pubblicato l’album Non siamo di qui. “Considero shoegaze più un aggettivo che un sostantivo”, afferma Bart, leader della band romagnola, “posso dire che la nostra musica è abbastanza shoegaze, ma dipende dai singoli pezzi”. I Cosmetic, comunque, si dichiarano fan del “wall of sound, i suoni stranianti, i testi adolescenziali, che ci sono rimasti dentro dagli anni ‘90”. A proposito del suo modo di cantare, Bart afferma: “la voce ‘eterea’ è l’unico modo di cantare in cui riesco a non stonare”. Sulla loro pagina myspace, i Cosmetic riconoscono di assomigliare, nel suono, a band quali Ride e Slowdive. Hanno inoltre dichiarato di apprezzare band Nu Gaze quali A Place to Bury Strangers e S-M. “In questa sorta di ritorno del genere”, aggiunge Bart, “i miei preferiti sono Asobi Seksu, Amusement Parks On Fire, Ifwhen, Ringo Deathstarr. E poi altre band che lo mescolano in qualche modo ad altri generi, ad esempio adoro il lo-fi radioplay di Ariel Pink, il pop dei Pains of Being Pure at Heart, il punk dei No Age o il songwriting un po’ hippie dei Beach House, e questi ultimi, per me, sono la vera chicca!” E i padri di tutto questo? Pare che Kevin Shields si sia deciso finalmente a far uscire un terzo album dei MBV, dopo che la band è tornata sui palchi nel 2008. Ma dichiarazioni come la seguente fanno temere che non sarà un parto facile… “Ho semplicemente smesso di fare dischi, e suppongo che ciò debba sembrare strano alla gente… ‘perché l’hai fatto?’ la risposta è, non era buono [come Loveless]. E mi sono sempre promesso che non l’avrei mai fatto, di pubblicare un disco peggiore”. (Jessica Dainese)

Discografia essenziale:

Psychocandy, Jesus and Mary Chain
The Perfect Prescription, Spaceman 3
Nowhere, Ride
Loveless, My Bloody Valentine
Souvlaki, Slowdive
Raise, Swervedriver
Gala, Lush
Ferment, Catherine Wheel
Whirpool, Chapterhouse
No 2: Abyss in B Mirror, Serena Maneesh

Articolo pubblicato a maggio 2010 su Alias e ripubblicato su Musicletter.it per gentile concessione dell’autrice.


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