Una cornucopia barocca di simbolismi visivi costituisce la premessa onirica di Melancholia. Accompagnate dall’ouverture wagneriana del “Tristano e Isotta”, immagini raggelate dal rallenti s’alternano a dipinti classici fino ad auto-comporsi esse stesse come quadri dagli inquietanti presagi. Il volto di Justine si staglia sullo schermo con le inequivocabili stimmate della “depressione”, indebolita, emotivamente svuotata, mentre cadono morenti figure pennute di volati (?). Lars von Trier apre così la sua opera indicandone immediatamente la vera protagonista: la disforia patologica stampigliata, anche se per pochi attimi, sul personaggio che appare consumato, depauperato del “sé”, icona di un silente disagio psichico che nel corso del film si manifesterà e dis-muterà in forme sempre differenti. La rappresentazione con una vertiginosa panoramica dall’alto di una tenuta (che in seguito capiremo essere quella di Claire, sorella di Justine) in cui s’intravede probabilmente una figura femminile (ma potrebbe essere benissimo la “falso grafia” di un’immagine ritoccata ad arte) fa spazio al dipinto di Pieter Bruegel, “Cacciatori nella neve”, figurazione esemplare della malinconia invernale. Gli uomini curvi, vestiti di scuro, torvi al pari degli uccelli tra gli alberi scheletriti sono la metafora perfetta di un mondo in malinconico oblio su cui pende un (dis)astro imminente: la (cattiva?) stella che emana bagliori rossastri e che scompare allineandosi alla terra al pari di quei frammenti neri che hanno divorato l’immagine di Bruegel. Che sia la fine (imminente?) incarnatasi nella fuga disperata e rallentata (perché impossibile) di una madre e di suo figlio in un campo da golf? La natura sembra risucchiare la vita (il cavallo che cade) e restituire in un ultimo sussulto un po’ d’energia a una Justine scintillante, sposa che, però, corre via (anch’essa frenata) per abbandonarsi al trapasso lasciandosi galleggiare sull’acqua come l’Ofelia di John Everett Millais con una corona di fiori in mano, gli occhi semi chiusi, la bocca increspata: la collisione è (ormai) arrivata. Il prologo di von Trier è una strabiliante promenade iconografica che, mescolando suggestioni tardo-romantiche ad inequivocabile nichilismo, ha il compito in poco meno di otto minuti di prepararci all’apocalisse condensandone in maniera surreale le specifiche semantiche del film: il personaggio “manifesto” e l’accidente “altro”-il topos e l’evento che lo destabilizzerà. “Melancholia” può, dunque, partire con il primo atto (intitolato “Justine”) in cui il regista accantona l’eleganza figurativa fin qui mostrata e adotta uno stile che rimanda all’esperienza di “Dogma 95” per raccontare i preparativi del matrimonio della ragazza. Una macchina a mano mobilissima incalza i personaggi, restringendo il campo visivo per convergere ondeggiante su insistiti primi piani; i movimenti sono continui, con improvvise rotazioni a schiaffo che hanno lo scopo di evidenziare bruscamente le contraddizioni di Justine e i conflitti che covano in un ambiente borghese ed ipocrita. La protagonista non è così felice come appare in un primo momento e, al contrario, una volta giunta nella villa dove si svolge il ricevimento, la depressione, in precedenza latente, deflagra con un incedere progressivo: si isola dalla festa, poi tradisce il marito (che l’abbandonerà), né riesce a trovare conforto nei genitori altrettanto anaffettivi. D’altra parte il corpuscolo sociale che emerge dalla soireè mostra un insieme di individui sazi ma emotivamente vuoti, gonfi ed infelici al pari di quelli rappresentati ne “il paese della cuccagna” di Bruegel che von Trier mostra in apparente antinomia accanto all’immagine dello schiavo appeso vivo per il costato di William Blake: nel primo caso ad esprimere la brutale volgarità del mondo borghese appagato apparentemente da un benessere insensato e nel secondo l’oscena violenza della presenza di un male inspiegabile (elememto fondante del cinema del regista danese). La fuga (dal matrimonio) di Justine è, dunque, un tentativo di rinnegare un mondo di “uguali” che non si può accettare e, dunque, amare (la depressione della ragazza è in ultimo soprattutto incapacità di amare). Rifugiatasi dalla sorella Claire, nel secondo atto, la notizia della probabile collisione del pianeta Melancholia con la Terra trasforma positivamente lo status psicologico di Justine solo in apparenza per paradosso. Mentre tutti gli altri nutrono speranza di salvezza, negando i segni negativi che sottendono un tale evento catastrofico (alterazione delle temperature e del campo magnetico terrestre, rarefazione dell’aria) la protagonista trova la forza di accettare l’inevitabile apocalisse e raggiunge una strana forma di equilibrio fondata sulla consapevolezza della fine. Nell’imminenza dell’impatto Justine si rifugia sotto una tenda di arbusti improvvisata e tenendo per mano sua sorella Claire e il nipote aspetta con lucida rassegnazione. L’accettazione/inclusione di Melancholia non è, però, soltanto l’implacabile metafora vontrieriana del riconoscimento della propria condizione di disagio emotivo, di patologia psichica (che ci rende consapevoli e, alla fine, più forti perché pronti a qualsiasi situazione) ma anche il tentativo titanico di un suo disperato superamento. L’irruzione dall’esterno dell’ “altro”, del totalmente diverso da sé, è una catastrofe che nel suo significato etimologico di katà (sotto) e strèpho (volgere), spezza la tirannia dell’ “uguale” a noi – in cui galleggiamo catatonici nelle nostre vite – e può determinare uno sconvolgimento radicale e definitivo (positivo?) della nostra condizione morale. Lars von Trier, però, non riesce mai a far sconti allo spettatore, non viene (mai) a patti con il proprio nichilismo e non contraddice le premesse, sublimi nella forma, ma apocalittiche, del prologo di questo film: il (dis)astro non sarà propriamente una sventura, pone le possibili premesse per un cambiamento e/o accettazione del sé, infonde l’Eros ma non può salvarci. Alla stessa stregua delle teorie della scienza e della bellezza del cinema e dell’arte: nessun rimedio al male di vivere ma solo un rifugio, un modo per resistere meglio al male, per lenire il dolore dell’esistere e preparaci al nulla che verrà. Buio come lo schermo nero che ci comprime il petto dopo la collisione di Melancholia con la Terra. (Nicola Pice)
✓ MUSICLETTER.IT © Tutti i diritti riservati - 7 Gennaio 2014