Non avevo loro notizie da un decennio e pensavo semplicemente si fossero dimenticati di me, come hanno fatto tutti gli amici. O che io mi fossi dimenticato di loro, già molto più improbabile. Poi è arrivato Solna e mi sono semplicemente reso conto che non facevano un disco nuovo dai tempi di Up-tight. Undici anni di assenza dopo venti anni di presenza costante e rumorosa come portabandiera del garage e del punk‘n’roll scandinavo. Solna celebra quindi il loro rientro in scena. I nomadi fanno ritorno a casa. Quella che si vede in copertina è infatti una delle stazioni principali della metropolitana di Stoccolma, proprio quella che si apre sotto il Kvickly di Solna. Un disco importante e intenso, tanto da venire prontamente ristampato anche in questa versione australiana con scaletta leggermente modificata (vai a capire perché). Trying so hard, The bells e Fine Fine Line vengono sacrificate in onore di Don‘t kill the messanger, The way you let me down e Get out of my mind senza tuttavia alterare il peso specifico del disco, uno dei migliori della discografia dei Nomads. Forse il migliore in assoluto, pieno zeppo di belle canzoni che echeggiano di New Christs e Flamin’ Groovies, di Fleshtones e Sick Rose, di Saints e MC5, di garage rock e power pop. Un disco dove tutto sembra al posto giusto (cosa si potrebbe aggiustare su pezzi come Make up my mind, Miles away, You won‘t break my heart, Hangman‘s walk, Don‘t kill the messanger o sulla cover di American Slang di Jack Oblivian se non sistemare il cursore del volume a fondo scala?), più di quanto lo fosse negli anni Ottanta. Grandi chitarre (un Hans Ostlund in gran spolvero) ed energia a profusione. Se vi divertite ancora col rock‘nroll, fatevi questo viaggio a Solna. Altrimenti, c’è sempre Lourdes. (Franco Dimauro)
✓ MUSICLETTER.IT © Tutti i diritti riservati - 21 Gennaio 2014