Senza alcuna ombra di dubbio la cinematografia degli anni sessanta del ‘900 è stato segnata dalla rivoluzione linguistica della nouvelle vague nata in Francia. Le prime opere di Truffaut, Godard, Rohmer e Chabrol sono state all’origine di un mutamento stilistico che si è ripercorso su tutto il cinema narrativo facendo sorgere movimenti analoghi in altre parti del mondo: un effetto-domino che è coinciso con un panorama socio-culturale in altrettanto rapida trasformazione. Il nuovo cinema francese che prendeva forma in quegli anni deve, però, moltissimo anche agli autori appartenenti alla cosiddetta “rive gauche”, la riva sinistra intellettuale parigina: un gruppo certamente eterogeneo al pari dei registi della nouvelle vague rispetto ai quali presenta importanti differenze stilistiche. Le opere prodotte dagli esponenti della “gauche” appaiono più cerebrali e prendono ispirazione dalle sperimentazioni sofisticate della coeva narrativa ’sì che le stesse sceneggiature saranno scritte da importanti romanzieri (Marguerite Duras, Alain Robbe-Grillet, Jean Cayrol), alcuni dei quali, più tardi, passeranno alla regia vera e propria. Alain Resnais s’impone immediatamente come il rappresentante più significativo del piccolo movimento sebbene prima di dedicarsi al cinema di finzione sia stato un apprezzato documentarista. Infatti, anche l’opera prima dell’autore bretone – Hiroshima mon amour (1959) – nasce dalle ceneri del precedente scioccante mediometraggio sui campi di sterminio “Notte e nebbia” evolvendosi, però, come un lungometraggio di eccezionale valore artistico fondato (e in ciò consiste la sua originalità) su un complesso quanto affascinante esercizio di associazioni mnemoniche e di parallelismi che sovrappongono la tragedia personale di un’attrice francese che s’innamorò di un soldato tedesco che le fu ucciso dinnanzi agli occhi alla tragedia più vasta della città di Hiroshima e alla difficoltà nell’amore per un architetto giapponese. L’incipit è tanto inconsueto quanto intenso: compaiono due corpi che si abbracciano con tale veemenza e trasporto che sembrano fondersi e tramutarsi in figure astratte. Segue un dialogo recitativo d’impostazione teatrale in cui i due protagonisti commentano fuori campo le immagini della città giapponese utilizzando figure retoriche prese in prestito dalla letteratura: allegorie, anafore, allitterazioni che conferiscono alle parole un ritmo musicale. Lo svolgimento successivo del film è del tutto frammentario perchè, mediante l’impiego del flashback, vengono alla luce i ricordi del passato della donna che sembra riviverlo nel presente. Resnais riesce già con il suo primo lavoro a rappresentare visivamente i turbamenti dell’animo umano e a dare sostanza all’immaginario del suo personaggio attraverso un montaggio che crea corrispondenze formali tra piani cronologici distinti (il passato e il presente) ma uniti dalle emozioni che – di fatto – annullano le barriere temporali. Il regista ha già deciso quale sarà l’oggetto d’indagine della sua opera da qui in avanti: il tempo dell’interiorità. Infatti, coadiuvato dallo scrittore Alain Robbe-Grillet (che scriverà la sceneggiatura e i dialoghi ispirandosi al romanzo “L’invenzione di Morel” dello scrittore argentino Adolfo Bioy Casares), Resnais realizza nel 1961 L’anno scorso a Marienbad: un’opera in cui egli porta all’estremo la sperimentazione iniziata in precedenza “inventando” un film che può essere considerato nella sua complessità una delle costruzioni più affascinanti della settima arte, una sorta di compendio delle possibilità del cinema stesso. Resnais mette in scena la dissoluzione del racconto tradizionale e delle coordinate spazio-temporali traslando ogni elemento filmico su un piano che è soltanto mentale dove quegli stessi elementi sono svincolati da ogni tipo di verosimiglianza e si muovono in un labirinto astratto. I personaggi, infatti, sfuggono qualsiasi tipo di analisi psicologica, non hanno nomi e somigliano, invece, ai temi di una composizione sinfonica muovendosi in un dedalo ripetitivo e modulare completamente illogico. La colonna sonora e i movimenti della MDP che si esprimono in interminabili carrellate barocche e panoramiche senza soluzioni di continuità hanno uno stile ipnotico, incantatorio. Le combinazioni del montaggio – i raccordi di direzione sull’asse e i continui campo/controcampo sono di una perfezione estetica assoluta – determinano repentini cambi di scena spiazzando lo spettatore che non si muove più all’interno di un tradizionale intreccio narrativo quanto in un continuum di eventi possibili e/o improbabili. L’anno scorso a Marienbad è un enigma, quindi, di impossibile soluzione, perché racchiude un mistero (quello della vita) che non si può svelare e che appartiene tutto alla sfera del sogno che mescolando passato e presente, confonde tutto indistintamente. La successiva produzione di Resnais, dopo il folgorante debutto sulla scena cinematografica con due opere rivoluzionarie, procederà talvolta nel solco della sperimentazione o, in altri casi, si manterrà sui binari di una narrazione più tradizionale utilizzando il cosiddetto “realismo contemporaneo” secondo la definizione che ne fornisce lo stesso regista francese. Resnais riprende, cioè, il principio di verosimiglianza ma non rinuncerà mai a filmare il flusso mentale dei personaggi dei suoi film che egli ritiene importante al pari (o, probabilmente, più importante) di ciò che avviene all’esterno. Vedranno la luce Muriel, il tempo di un ritorno (1963) o La guerra è finita (1966), esempi mirabili di storie decronologiche segnate da un’inquietudine profonda e dalla consapevolezza dell’irrecuperabilità del passato (e, dunque, dell’innocenza perduta), e, più tardi, Providence (1977), capolavoro sulla dicotomia e/o intreccio dell’arte con la vita e viaggio allucinato nella fantasia malsana dell’essere umano, dominato dall’ossessione resnaisiana per la morte incombente, e Mon oncle d’Amerique (1980), intreccio stravagante delle vite di tre persone che inseguono, attraverso il miraggio della ricchezza, un impossibile riscatto esistenziale, fino a giungere ai due film gemelli Smoking/No smoking (1993), ispirato alle commedie teatrali di Alan Ayckbourn, in cui l’autore mostra versioni differenti della stessa storia in conseguenza delle possibili scelte compiute dai personaggi. Particolarmente significativa appare l’incursione di Resnais nel melodramma mediante il quale mette in scena quell’elemento di straordinaria imponderabilità (l’amore) che, irrompendo nelle vite degli uomini, manda all’aria le sicurezze affettive e sociali. Il recente Gli amori folli (2009) si sostanzia di questo tema e lo rappresenta con nostalgica eleganza ma, ancor più incantevole, è “Mèlo” del 1986, straordinario esempio di cinema della parola e della forma in cui la scenografia art dèco si staglia in tutta la sua mortuaria marmoreità delineando le coordinate di un melodramma atipico, svagato ed intimista, in cui le sonate di Brahms e di Bach ed i lenti piani sequenza sembrano sussultori movimenti dell’anima. Ancora una volta Resnais ha dato forma ai tumulti emotivi degli esseri umani: in ciò consiste il fascino irripetibile del suo cinema che merita di essere custodito e ricordato come una delle espressioni più importanti della storia della settima arte. (Nicola Pice)
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