Dopo aver modernizzato il cinema italiano con le straordinarie innovazioni tecniche e stilistiche contenute ne L’uccello dalle piume di cristallo, successivamente sviluppate negli altri due capitoli della trilogia zoonomica (Il gatto a nove code e 4 mosche di velluto grigio) e perfezionate con Profondo rosso, la figura di Dario Argento appariva quella di un autore sincreticamente post-moderno: senza alcun dubbio l’erede della tradizione alterna ma fertile del thriller italico, nutritosi delle atmosfere gotiche dei film di Mario Bava e di tutta una serie di gialli italo-tedeschi diretti da Alfred Voher espunti dalle opere di Edgar Wallace, a sua volta capace, però, di aggiornarne i codici con il linguaggio elaborato dalla “nouvelle vague” e approdare, in ultimo, alla definizione di uno stile personalissimo. Le opere “thriller” confezionate dal regista romano avevano dato vita, pertanto, ad un genere ibrido retto da equilibri precari e complessi, il cui comune denominatore era costituito da una visionarietà barocca che faceva molta fatica a rimanere nell’alveo della verosimiglianza del giallo “hitchcockianamente” inteso avendo come definitiva meta la rappresentazione dell’irrazionale o, comunque, dell’umanamente inintelligibile. Soltanto un’estetica “horrorifica” poteva, dunque, consentire al regista romano di scatenare tutte le risorse del linguaggio filmico con una espressività scevra dalle costrizioni narrative. La svolta avviene nel 1977 con Suspiria, opera in cui Argento – senza venir meno, però, al rigore nella composizione narrativa e figurativa – sembra liberarsi dalle “necessità logiche” imposte dal genere “thriller” per orchestrare i tempi di un’immersione totale nei fenomeni sovrasensoriali, di un’esplorazione di dimensioni “altre”, abitate da forze malefiche e razionalmente indecifrabili. Suzy, una ragazza americana, si reca nell’accademia di Friburgo per perfezionare i suoi studi di danza e qui assiste ad avvenimenti inspiegabili e raccapriccianti: l’atroce uccisione di due giovani allieve per mano di uno sconosciuto (non saranno, comunque, gli unici delitti a verificarsi), la manifesta ostilità di Frau Tanner, l’insegnante, l’invasione di vermi nelle stanze della villa e misteriosi rumori notturni, passi e respiri sibilanti. Suzy verrà a sapere dopo l’incontro con uno studioso di occultismo che l’Accademia era stata fondata in passato dalla strega Elena Markos, la madre dei sospiri (mater suspiriorum), e che in questo luogo vengono compiuti cruenti rituali esoterici. In un allucinatorio crescendo rossiniano la ragazza riuscirà ad uccidere la megera provocando l’incendio “purificatore” del malefico edificio. “Suspiria” può essere considerata una “dark novel” colorata dalla grand-guignolesca irruzione del rossore del sangue, una fiaba maledetta che, all’osso dell’irrealismo, è la metafora delle difficoltà che una ragazza poco più che adolescente incontra nel proprio percorso di crescita, dell’impossibilità, quindi, nel panopticon infernale immaginato da Argento, che questo viaggio possa compiersi secondo tragitti lineari e della certezza, quindi, che (il viaggio stesso) non abbia una qualche forma di approdo rimanendo sostanzialmente incompiuto. Al contrario, la strada è disseminata dagli ostacoli che il “male” cosparge copiosi servendosi paradossalmente proprio della mano di coloro (gli adulti) che, al contrario, dovrebbero essere una guida stabile e certa così che il faticoso processo psicologico che porta alla “maturità” comunemente intesa, agli occhi del regista romano, è una successione di atti mirati esclusivamente a corrompere la purezza dell’infanzia determinando disarmonie interiori e squilibri mentali. Infatti, il percorso “di formazione”, compiuto dalla ragazza all’interno dell’edificio scolastico, non è in grado di conferire la necessaria autonomia che dà coscienza della realtà umana e consente di orientare le scelte future: appare, piuttosto, una peregrinazione nell’insolito (prima) e nell’ignoto (poi) che, senza più alcun punto di riferimento, progressivamente assume i contorni di una caduta verticale nel tragico (lo scontro con la setta e la strega) come se Suzy fosse una sorta di “Alice in the horrorland”. Fondamentale, pertanto, in questa vorticosa discesa agli inferi diventa il ruolo svolto dalla macchina da presa: non solo interfaccia che registra ed interpreta il rapporto tra la protagonista fragile ed innocente e la “gehénna” violenta che l’avvolge ma essa stessa strumento e perno imprescindibile della rappresentazione delle persone, degli oggetti, dei suoni e, dunque, dello spazio filmico che, nei desiderata dell’autore, diventa non solo la tavolozza per illustrare gli eventi terribili (e, in definitiva, le proprie ossessioni) ma anche per omaggiare le sue fonti d’ispirazione cinematografiche. “Suspiria” rimanda, infatti, alla Biancaneve disneyana per lo stile ed impianto narrativo (la candida Suzy contrapposta alla mater suspiriorum=strega cattiva), occhieggia in continuazione i “tòpoi” vampireschi (l’arrivo notturno di Suzy con il taxi=carrozza, l’edificio scolastico=castello draculesco, il vino=sangue, il pipistrello che svolazza dall’armadio), cita le goticherie di Edgar Allan Poe rese celebri quarant’anni prima dal film di Edgar G. Ulmer (The black cat del 1934), l’espressionismo del Nosferatu di Murnau e, persino, Il sospetto di Alfred Hitchcock nell’inquadratura del bicchiere ingigantito. In ogni caso, comunque, l’habitus formale di Suspiria è imbastito dal regista romano con un’accuratezza mirabile senza tralasciare alcuno degli elementi che contribuiscono a rendere un film stupefazione ed incanto. Le scenografie realizzate da Giuseppe Bassan, infatti, sono influenzate direttamente dall’art dèco tedesca ma, in maniera del tutto originale, alle componenti pesanti e cariche vengono mescolati gli inserti liberty delle vetrate e dell’oggettistica d’arredamento; la piazza dove il pianista viene sbranato dal suo cane s’ispira a quella neoclassica dei “Tre Templi” di Monaco di Baviera ma è contaminata da un tocco di modernismo “jugendstil” che è stilisticamente riconducibile all’art nouveau. La colonna sonora del gruppo dei “Goblin”, pur non rinunciando alla matrice “progressive” già presente in Profondo rosso, arricchisce ulteriormente le proprie possibilità espressive fino a diventare una sperimentale suite psichedelica (tra gli strumenti utilizzati vi sono il bouzouki greco e le percussioni africane) che è il perfetto contrappunto dei terribili eventi che si svolgono nell’Accademia. Le inquadrature (ciascuna diversa dalle altre) hanno una vertiginosa molteplicità prospettica – ben evidenziata dal montaggio di Franco Fraticelli – e non lasciano nella loro implacabile successione neppure un attimo di tregua allo spettatore. Le immagini stesse (questo è probabilmente l’aspetto più eccentrico dell’opera) sono caratterizzate da una densità cromatica che il direttore della fotografia Luciano Tovoli raggiunge utilizzando una pellicola dalla bassa sensibilità che conferisce una maggiore profondità di campo e colori di consistenza quasi materica – alla maniera del Technicolor degli anni trenta e quaranta del ‘900 – che, però, sono impiegati con una prevalenza differente in base alla tipologia dell’inquadratura. Il rosso, quello comunque più adoperato, identifica la facciata dell’Accademia, il blu il salone interno dell’edificio, il verde la stanza di Olga, il nero il bosco circostante ma nelle sequenze di maggior importanza le tonalità si mescolano tutte in una brillante policromia dal grande impatto emotivo e figurativo. “Suspiria” non è, dunque, soltanto un film (capolavoro) ma il risultato del complesso e certosino lavoro artigianale di un équipe ed ha l’ambizione di essere forma d’espressione dell’arte contemporanea che tutto assimila e rielabora. Potremmo tentare di incasellarlo in molti modi differenti corrispondenti (forse) ad altrettanti sub-generi cinematografici: rappresentazione delle paure giovanili dell’inconscio, fiaba neo-gotica, musical orrorifico, raccapricciante esperienza lisergica. Tutte definizioni appropriate ma incomplete. Di certo Suspiria è il tentativo riuscito, all’interno di una linea narrativa, di fare un cinema puro in cui l’inverosimile potenza visiva – che diventa in alcuni momenti astrazione surreale – scateni la fantasia e le emozioni. (Nicola Pice)
✓ MUSICLETTER.IT © Tutti i diritti riservati - 12 Marzo 2014