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(Ri)visti in TV: San Michele aveva un gallo di Paolo e Vittorio Taviani (1972)

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L’Italia cinematografica degli anni ‘60 aveva vissuto una stagione di grande rinnovamento: alla generazione dei Visconti, Antonioni e Fellini che aveva portato il cinema d’arte italiano ad essere il più originale del mondo, s’erano aggiunti nuovi e importanti contributi. I film italiani – pur in carenza d’un movimento assimilabile alla “nouvelle vague” e, d’altra parte, con il “neorealismo” la nostra cinematografia, prima di quelle di altri paesi, aveva già sperimentato una propria e autoctona strada alla modernità – s’erano arricchiti dell’apporto di autori che segneranno indelebilmente la storia del nostro cinema (pensiamo alle figure di Marco Ferreri, Pier Paolo Pasolini, Bernardo Bertolucci, Marco Bellocchio tra gli altri). Nel corso di questa decade persino la commedia – con i film di Dino Risi – aveva cambiato registro fustigando con un tono meno consolatorio i vizi di una nuova (de)generazione di italiani. Grazie a un’intuizione di Sergio Leone era nato lo “spaghetti western”, un western all’italiana che sviluppava un’estetica completamente differente da quella classica e, in definitiva, anche i cosiddetti “generi cinematografici” avevano conosciuto un periodo di grande penetrazione commerciale presso il grande pubblico che aveva permesso ai produttori di sostenere finanziariamente il cinema “autorale”. Al contrario gli anni ‘70 segnano, sotto molteplici aspetti, l’inizio del declino del nostro cinema (che toccherà il suo punto più basso nella decade successiva) inteso come apparato economico in grado di intercettare i gusti del pubblico ed orientarli a sua volta in un sistema corente che fosse in grado di coniugare, al contempo, innovazione stilistica e tradizione popolare. Nel corso di questi anni non mancheranno – è il caso di precisare – (numerose) opere d’elevato livello qualitativo e prove d’autore di profondo spessore artisitico ma nel suo complesso la cinematografia italiana vivrà una fase di “impasse” speculare probabilmente a quella della nazione che a partire dalla seconda metà del decennio acquisterà le caratteristiche definitive d’una conclamata crisi economica e politica. Le rivendicazioni sociali sempre più turbolenti – che sfoceranno nell’inquietante e violento periodo della “lotta armata” terrorista e stragista, una ferita ancora oggi aperta per il paese – la secolarizzazione dei costumi e la conseguente evoluzione del cosiddetto senso del pudore, l’influsso esercitato dalla televisione sulla popolazione grazie al progresso nella qualità dei servizi offerti non potranno non condizionare la produzione cinematografica. E infatti: muta pelle la commedia, fiorisce una “exploitation” tutta italiana con vari filoni (quelli più scollacciati, i “poliziotteschi”, i thriller e gli horror che rivitalizzano gli stilemi filmici a cui s’ispirano) ed anche il cosiddetto “cinema politico” – con tutte le sue implicazioni sociali – che aveva conosciuto il suo culmine nella decade precedente con le opere, tra gli altri, di Francesco Rosi, Elio Petri, Gillo Pontecorvo, Damiano Damiani, Vittorio De Seta e Francesco Maselli, subisce profonde modificazioni. Se in precedenza, infatti, i toni erano calibrati sulla medietà stilistica ed era prevalente il carattere assertivo della narrazione con evidenti funzioni pedagogiche, le violente turbolenze sociali distruggeranno il sistema di valori perno del progetto politico progressista “en vogue” alla fine degli anni ‘60 cambiando totalmente le modalità stesse di questo tipo di cinema che metterà in scena i dubbi sulla possibilità da parte del potere di capire e risolvere la complessità di questo delicatissimo momento storico. All’inizio degli anni ‘70 del novecento vengono alla luce, quindi, più o meno simultaneamente – segno del mutato clima sociale – molti film che, pur nella loro diversità, sono idealmente assimilabili ad un cinema d’impegno politico. Pensiamo a La classe operaia va in paradiso di Elio Petri o a Sacco e Vanzetti di Giuliano Montaldo oppure ancora a San Michele aveva un gallo dei fratelli Taviani, opera molto travagliata nel suo iter produttivo, la cui lavorazione, iniziata nel ‘71, terminerà un anno più tardi (1972), ma la cui distribuzione nelle sale avverrà soltanto quattro anni dopo nonostante le accoglienze più che positive al Festival di Berlino e di Cannes. I fratelli Taviani, Paolo e Vittorio, ancora una volta ricorrono allo scrittore russo Lev Tolstoj (la novella presa in considerazione è “Il divino e l’umano” del 1905) per trarre la materia di questo film. Autori di grande spessore culturale, sperimentatori di nuove forme linguistico-visive, capaci di far coesistere Chaplin con Visconti ed ?jzenštejn, Brecht e Goethe, la musica dodecafonica e il melodramma verdiano, le teorie marxiste con l’irrazionalismo, essi stessi al contempo uomini di cultura e cinematografari, personalità eccezionali e singolari nel panorama del nostro paese, dopo aver diretto l’allegoria – anch’essa politica – di “Sotto il segno dello scorpione” – con questa opera mettono in scena una metafora del presente italiano collocandola temporalmente nell’Umbria del 1870. Il matematico ed anarchico internazionalista Giulio Manieri occupa con un gruppo di altri uomini un piccolo paese dell’Appennino umbro. L’insurrezione, però, non determina gli effetti sperati provocando, al contrario, l’intervento dell’esercito che, sconfitti i rivoltosi, arresta Manieri e lo condanna a morte. Salvato quand’era già innanzi al plotone d’esecuzione e inviato all’ergastolo, il giovane anarchico, per non soccombere alla pazzia della solitudine, cerca di sopravvivere immaginando di parlare in carcere con i propri compagni fantasticando su un futuro che sa non gli apparterrà. Attraversando dieci anni più tardi la laguna per essere tradotto in altro carcere, incrocia un’altra imbarcazione carica di giovani prigionieri – socialisti rivoluzionari al contrario di lui – e d’improvviso assume la consapevolezza d’essere fuori dalla storia. L’opera dei Taviani (magistralmente diretta con rigoroso ascetismo visivo che, però, non rinuncia ad ampi momenti di visionarietà) è una straordinaria riflessione sul senso dell’utopia (come sono in fondo tutte le dottrine politiche) incardinata nella rappresentazione del dramma interiore di un uomo che, pur nutrendo una profonda fede nelle proprie idee e credendo che esse possano determinare un cambiamento, nel confronto con se stesso e al netto del risultato delle azioni conseguenti a quelle idee, registra irrimediabilmente una sconfitta. Il mondo respinge l’anarchismo velleitario, ma puro e disinteressato, di Manieri e alla stessa stregua è refrattario, sembrerebbero dirci gli autori, a qualsiasi forma di radicale cambiamento consentendo null’altro che una forma diversa dello status quo nella migliore tradizione del gattopardismo. Il giovane rivoluzionario (eccellente l’interpretazione di Giulio Brogi) per certi versi percepisce l’inutilità della lotta a conseguire risultati immediati ma nell’isolamento carcerario, nel corso dei dialoghi fantastici con i compagni persi in battaglia – in cui i Taviani danno spazio alla grande forza visionaria delle immagini che descrivono le progressive allucinazioni del prigioniero – emerge la speranza che la lotta ponga le basi per un miglioramento futuro. Il senso dell’utopia è, dunque, l’utopia stessa (di un “altroquando” più giusto), un sogno disperato che, secondo gli autori però, non si realizza mai. Disillusi dall’atmosfera di quegli anni che inizia ad essere tesa e violenta e che mette in scacco di fatto la sana dialettica politica, i registi, infatti, con il suicidio finale di Manieri che si lascia scivolare in acqua annegando, mettono in scena soprattutto il trauma di una sconfitta, la caduta delle speranze rivoluzionarie che il sessantotto aveva alimentato, la resa delle ragioni del singolo dinnanzi alla storia che prescinde da tutto e che tutto travolge. Gli anni ’60 sono finiti e con loro probabilmente è terminata la possibilità stessa di un cambiamento (pacifico). Iniziano gli anni settanta e con la perdita della speranza verranno giorni terribili tra conflitti sociali e disgregazione delle istituzioni, attentati terroristici e stragi misteriose, recessione economica, disoccupazione, scioperi ad oltranza, estremismi contrapposti, escalation di rapine, furti, omicidi, instabilità politica… Il cinema sarà sempre lì, pronto a raccontarcelo. Registratore o cassa di risonanza di una realtà in continua mutazione. (Nicola Pice)


✓ MUSICLETTER.IT © Tutti i diritti riservati - 18 Marzo 2014

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