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Recensione: The Bonniwell Music Machine – S.T. (1967)

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Otto anni dopo la pubblicazione di The Ultimate Turn On, la Big Beat torna per chiudere la porta sulla vicenda artistica dei Music Machine. Facendo tutto il rumore che quel gesto merita, con un doppio cd che documenta l’epilogo (ma facendo anche una puntata alle radici di tutta l’avventura, quelle folk del Sean Bonniwell solitario e dei Ragamuffins) della storia della band di Sean Bonniwell all’indomani della pubblicazione del seminale album di debutto, le solite dettagliate note di copertina di Alac Palao e le interviste ai protagonisti del sofferto atto conclusivo del gruppo californiano. Nove mesi dopo la pubblicazione di Turn on, di ritorno dal trionfale tour americano, la band si fa i conti in tasca. E trova la tasca vuota. Il leader Bonniwell e il management di Kevin Deverich e Gene Simmons perdono la loro credibilità agli occhi di Mark Landon, Doug Rhodes, Keith Olsen e Ron Edgar che scendono via via dalla Macchina, lasciando Bonniwell a guidare un’ auto senza più passeggeri. A tirare fuori dai guai Sean è Brian Ross che lo presenta a Joe Smith, boss della Warner. Quando nell’autunno del ’67 Joe gli presenta una bozza dell’ accordo e gli chiede dove siano gli altri della band, Sean confessa di essere da solo e lo prega di correggere la dicitura Music Machine in Bonniwell Music Machine. Poi, esce dagli uffici della Warner Bros e telefona al suo vecchio amico Mark Landon per chiedergli una mano (quella destra, ormai senza guanto) per mettere su una nuova band. Mark gli consiglia due suoi amici dei Purple Gang: Harry Garfield e Allan Wisdom. Al suo agente John Babcock chiede di organizzare qualche audizione per un bassista, trovandolo abbastanza rapidamente in Eddie Jones dei Counts. A quest’ultimo chiede, nella frenesia delle imminenti registrazioni, per un batterista. Anche a costo che non abbia i capelli corvini, come da tradizione della band. Va bene anche biondo o albino, a quel punto. E così Jerry Harris andrà a sedersi dove una volta posava il culo Ron Edgar. Una volta obbligati a tingersi i capelli ed educati a limitare le proprie ambizioni e a utilizzare gli strumenti da lui imposti, quasi nessuno si accorgerà che attorno a lui tutto è cambiato. A novembre i nuovi Music Machine sono pronti a posare in foto e a dicembre ad entrare in studio per completare le registrazioni già iniziate a Marzo con la vecchia line-up. A febbraio del 1968 il disco, penalizzato da una masterizzazione appiattita dalla scelta dell’ etichetta di infilare sette canzoni per facciata, è impacchettato e messo sul mercato col solo Sean Bonniwell in copertina. Dentro, come già detto, ci suonano i Music Machine vecchi (nelle canzoni migliori del lotto: Absolutely Positively, Double Yellow Line, The eagle never hunts the fly, Astrologically Incompatibile, Bottom of the soul, Talk me down) e nuovi. Il disco, oltre che confermare lo stile della band, sposta frequentemente l’asse verso il soul e il R&B (Somethin’ hurtin’ on me, Soul Love e Affirmative No che sembrano quasi una roba da ? and The Mysterians). La band continuerà a registrare ottime cose (You ‘ll love me again è forse il capolavoro della seconda fase) fino all’estate del 1968 quando, per le ennesime truffe finanziare, Harry, Eddie e Allan abbandonano l’ auto in corsa, costringendo Bonniwell e Harris a riformulare la band. È l’ultima incarnazione dei Music Machine, con Carl Manfredi, Fred Thomas e Joe Bruley, a registrare le ultime spiazzanti canzoni della band che se da un lato mostrano il lato in assoluto più disimpegnato del gruppo (Time Out, Tin can Beach, Unka Tinka Ty, Reach me in time), dall’altro chiudono il cerchio con quello che è il 45 giri più maturo della loro intera discografia (Advise & Consent/Mother Nature-Father Earth). È l’aprile del 1969. Sean Bonniwell non avrà nessuno intorno per commentare l’allunaggio dell’Apollo 11. Lui del resto, la luna l’aveva già toccata. Con un dito. Quattro anni prima. (Franco Dimauro)


✓ MUSICLETTER.IT © Tutti i diritti riservati - 24 Marzo 2014

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