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(Ri)visti in TV: You, The Living di Roy Andersson (2007)

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Una donna di mezza età si lamenta con l’eccentrico fidanzato d’essere poco amata e compresa: a poco valgono le rassicurazioni di quest’ultimo e le avances di un bizzarro ammiratore vestito con un anonimo trench che sarà respinto nel momento stesso in cui cercherà di donarle un mazzo di fiori. Un falegname ha un incubo ricorrente: viene condannato a morte e giustiziato per aver eseguito male il suo lavoro. Un borseggiatore ruba il portafoglio al cliente di un ristorante lussuoso prima che questi abbia pagato il conto. Uno psichiatra non crede più alla possibilità di guarire il disagio dei suoi pazienti e ormai prescrive loro soltanto farmaci: gli esseri umani non possono essere felici perché troppo patologicamente invischiati nel loro egoismo. Un barbiere arrabbiato per imprecisati motivi taglia in maniera oscena i capelli ad un consulente aziendale prima di un’importante meeting durante il quale l’amministratore delegato della società muore all’improvviso (un attacco cardiaco? Un ictus?). Un suonatore di susafono (una particolare “tuba” dalla grande forma elicoidale) si guadagna da vivere facendo riecheggiare le grevi note del grande ottone ai funerali, tra cui proprio quello dell’amministratore delegato. Una ragazza incontra il suo musicista preferito in un pub: lui la invita a bere un drink insieme ad un’amica ma le fornisce indicazioni sbagliate perché è impegnato nelle prove con la sua band. La ragazza, profondamente delusa, racconterà più tardi ad una cena un sogno: sposava la rock-star e la loro abitazione si spostava seguita da una moltitudine di persone che li incitavano e auguravano loro una felice vita coniugale. Il racconto, comunque composto da altri brevissimi e frammentati bozzetti, accompagnati spesso da un tema sonoro di musica dixieland (non di rado viene inquadrata l’orchestrina di ottoni), termina con il montaggio di alcune persone che interrompono lo svolgimento dei loro gesti quotidiani e guardano verso l’alto: una grande formazione di aerei bombardieri B-52 compare davanti alla macchina da presa e minacciosamente sorvola la città. Benvenuti nel teatro dell’assurdo di Roy Andersson: “You, the Living” (2007) – quarto lungometraggio di una lunga carriera spesa tra documentari, corti e moltissimi spot commerciali – segue degnamente, pur con qualche piccola differenza, il solco già tracciato dall’opera precedente. Con “Songs from the second floor” del 2000, infatti, l’autore aveva messo in scena una straniante sarabanda millenarista che rappresentava la condizione umana in bilico tra farsa e tragedia. I personaggi – ognuno di essi estraneo agli altri – trascinavano stancamente esistenze disperate o buffe fra bar, ospedali, stazioni ferroviarie, uffici, camere da letto in un continuum “surreale”: un prestigiatore aveva sbagliato il proprio numero e segava, pertanto, la pancia di un uomo, un generale nazista viveva in una culla da neonato, un mobiliere, dopo aver dato fuoco alla propria impresa, diventava commerciante di crocefissi. I protagonisti (?!) condividevano il nonsense dell’esistere, erano incapaci di comunicare (se non attraverso il linguaggio stereotipato dei modi di dire: “domani è un altro giorno”, “nessuno mi capisce” “andiamo avanti”) e compivano azioni altrettanto insensate. Andersson esasperava l’immobilità dei protagonisti limitando i movimenti di macchina fino a renderli impercettibili: le scene, infatti, fondali disegnati, virate sul verde-blu, erano simili a tele di un dipinto (evidente l’ispirazione di Otto Dix) nella cui angustia venivano incastrati gli attori e nel cui ambito le vicende filmiche si esaurivano senza sconfinare nelle altre. La cupa freddezza figurativa dell’opera, la sua grottesca esibizione della mostruosità, il muoversi costante sul baratro dell’assurdo con l’adozione di tecniche dadaiste e, soprattutto, lo sguardo anti-metafisico rendevano “Songs from the second floor” l’epitome dello scacco emotivo di un’umanità allo sbando, la rappresentazione dell’apocalisse (già) in atto. You, the Living assume una altro punto di vista e in esso non si percepisce con la stessa immediatezza la sensazione da catastrofe imminente, da fine del mondo giacché il film vorrebbe esplorare la vita, cercare di coglierne, se possibile, la sua bellezza, la sua magnificenza, lo splendore dei gesti che la compongono partendo da un verso delle “Elegie romane” di Goethe che compare nei titoli di testa: “Godi, o vivente, del tuo letto deliziosamente riscaldato, prima che l’onda gelida del Lete ti bagni il fuggente piede”. Al contrario l’opera mette in scena con un sarcasmo beffardo l’impossibilità per gli esseri umani di gioire dell’esistenza dimostrandone la sua incomprensibilità, rivelandone la sua irrazionalità e la sua contraddittoria incoerenza. “You, the living” è costruito, in ogni caso, sulla stessa impalcatura formale di “Songs from the second floor”: film-quadro con scarsissima mobilità della MDP da cui emerge con chiarezza l’idea cara all’autore dell’estraneità dei personaggi in relazione allo spazio (non solo filmico) in cui si muovono. L’ambiente esterno, circostante all’uomo, è, dunque, una presenza oppressiva, che lo avvolge, di cui egli percepisce la pesantezza e che è una componente fondamentale del suo disagio ma di cui egli non riesce a liberarsi. I “tableaux-vivant” di “You, the Living” (una cinquantina di brevi sketch) rappresentano alla perfezione l’insanabile frattura fra l’uomo e lo spazio in cui egli è costretto a vivere perchè i personaggi che si muovono all’interno dell’inquadratura, ripresi con una MDP quasi fissa, manifestano il loro imbarazzo con una quasi immobilità che restituisce molto bene l’idea della gabbia-mondo in cui si trovano imprigionati. Inoltre l’artificialità dei fondali dipinti su cui si agitano, evidentemente contraffatti ed innaturali, annulla la tridimensionalità e riduce lo spazio a due sole dimensioni inconciliabili: l’ambiente e l’individuo che, pertanto, non potranno mai fondersi armonicamente perchè il primo manipolato e ricostruito, l’altro organismo vivente. La scena iniziale rappresenta un esempio tipico del metodo di Andersson: il giardino è riprodotto e il dialogo tra la donna e il suo fidanzato perde ogni significato dal momento che è pronunciato in uno spazio del tutto astratto, in una dimensione che non gli può mai appartenere perché fals(ificat)a. Se, dunque, “You, the living” appare cromaticamente un po’ più brillante e meno “marcescente” di “Songs from the second floor” (il pallore biancastro dei personaggi viene esasperato da un trucco pesante, il bluastro è del tutto abbandonato), accentua, se possibile, un punto di vista “alterato”, grottescamente deformato, che sconfina nel surrealismo fino ad espellere del tutto dalla narrazione “il senso” e ad annullare qualsiasi orizzonte teleologico. “You, the living” scardina ogni convenzione, capovolge ogni criterio di verosimiglianza e di realtà, scompone l’azione e la rimonta in modo da creare un effetto comico e tragico al tempo stesso perchè del tutto insensato e fa emergere in tutta la sua evidenza l’alienazione dell’uomo contemporaneo, la crisi irreversibile dei valori, l’angoscia, la solitudine, la totale impossibilità di ogni comunicazione. L’uomo subisce ogni cosa: l’ambiente, i suoi simili, la vita stessa. L’indagine sulla ricerca di una (im)possibile felicità non ha portato a nulla e all’incertezza nella scelta tra il riso liberatorio e l’abbandono al tragico, porranno fine, forse, gli aerei bombardieri che sorvolano quella sconfinata città che è il mondo. (Nicola Pice)



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