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(Ri)visti in TV: La via Lattea e Il fascino discreto della borghesia di Luis Buñuel

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Nell’analisi dei film di Luis Buñuel ci sono due elementi ricorrenti da cui non si può assolutamente prescindere: gli strali contro la borghesia che sottendono la rappresentazione della decadenza d’una società votata al fallimento totale e la feroce satira anticlericale. È questo il fil rouge che lega in un continuum l’intera opera del regista aragonese dove mirabilmente confluiscono la tradizione libertaria del surrealismo e, più in generale, dei movimenti d’avanguardia del ‘900 e anche, risalendo nei secoli, delle varie tendenze dell’arte e della letteratura d’opposizione, unitariamente alla memoria della cultura spagnola da Cervantes a Goya fino al romanzo picaresco. Non è dato sapere quanto volontariamente ma la scelta di rai movie di mandare in onda (a orari impossibili) “La via lattea” e “Il fascino discreto della borghesia” potrebbe avere il significato, quindi, di scegliere due film “manifesto” che in maniera molto efficace riassumano l’afflato anticlericale, nel primo caso, e antiborghese nel secondo. Invero la bizzarra e graffiante poetica di Buñuel è già racchiusa tutta nei capolavori degli esordi, “Un chien andalou” (1929) e “L’age d’or” (1930), con cui l’autore è assurto all’empireo del cinema, cambiandone probabilmente la storia. Il materiale ellittico mostrato nelle pellicole scritte insieme a Salvador Dalì è la trascrizione fedele e in-significante di allucinate esperienze oniriche, assemblato con un montaggio che rispecchia la stessa dinamica irrazionale, utilizzando raccordi di pura invenzione visionaria che non potrebbero essere impiegati se non in una logica di verosimiglianza onirica. L’immaginario buñueliano appare torbido e dissacrante ed esibesce in maniera nitida (per quanto sia possibile) una satira spietata nei confronti dell’istituzione (borghese e religiosa) mirando, per di più, alla dimostrazione dell’indecifrabilità del reale (o pseudo tale) e, dunque, della sua falsificabilità, della pluralità dei significati, della meccanica casuale degli eventi. Lo scopo deliberato è quello di distruggere le ipocrisie della morale comune e, scagliandosi contro l’ortodossia della congruità narrativa e delle convenzioni cinematografiche, di rinnovare il modo stesso di fare cinema. L’opera di Buñuel parte, dunque, da qui e tutto quello che ha realizzato dopo sembrerebbe richiamare, comunque, questi due film (soprattutto da “Viridiana” del 1961 in poi) come se il regista avesse cercato di rappresentare sullo schermo le sue ossessioni più profonde (le contraddizioni sociali e le morbosità sessuali che si agitano nell’inconscio). Persino il discusso periodo messicano dove sono presenti tratti più naturalistici contengono elementi satirici e surrealisti con i quali l’autore apre squarci onirici all’interno della narrazione. Ad ogni buon conto, quando vede la luce “La via lattea” (1969), Luis Buñuel è uscito già da qualche anno dalla sopracitata (lunga) stagione messicana. Lo avevano invitato nel suo paese dopo trent’anni di assenza per dimostrare quanto fossero benevoli nei confronti dell’acido surrealista. E il vecchio dissacratore sessantenne aveva ricominciato a provocare senza risparmiare nessuno. “Viridiana“, palma d’oro a Cannes nel ‘61, scosse un paese narcotizzato dalla dittatura. Lo scandalo fu fortissimo: sesso e capitalismo ridicolizzati impietosamente. Franco ne impedì la circolazione costringendo Buñuel a ripiegare in Messico per trovare i finanziamenti per produrre lo straordinario “L’angelo sterminatore“. Da quel momento in poi i film dell’aragonense saranno una sequenza di capolavori prodotti prevalentemente nella Francia libertaria con qualche aiuto di estimatori italiani. Il pellegrinaggio franco-iberico di Pierre e Jean (uno laico, l’altro credente) è l’espediente narrativo (molto poco lineare viste le bizzarrie registiche) con cui Buñuel mette in scena il più atroce, sarcastico, velenoso, feroce “jè accùse” nei confronti dell’istituzione religiosa. Il racconto delle eresie storiche e delle relative persecuzioni non solo ha lo scopo di dimostrare l’assurdità di qualsiasi dogma religioso ma anche di qualsiasi presa di posizione che abbia le caratteristiche dell’assolutezza. Evidente metafora – anch’essa – del disprezzo che la cultura ufficiale aveva all’inizio riservato al surrealismo bunueliano degli esordi, criticandone le incoerenze stilistiche, salvo poi farne un martire della censura franchista. Il piglio da apologo buffo oscilla in continuazione fra il sarcasmo e lo stupore irridente e dissacratorio: il maitre di un ristorante discute col personale della duplice natura di Dio così come in precedenza in un’altra locanda un prete e un ufficiale avevano parlato della transustanziazione, le scene dei misteri divini del cattolicesimo scorrono tra la scena di un’orgia e stranianti annunci di nascite future, in un sotterraneo De Sade spiega il senso della vita ad una ragazzina, in un collegio di Bordeaux i bambini del catechismo recitano anatemi mentre Jean immagina la fucilazione del papa e, tra un duello fra un giansenista e un gesuita e una feroce querelle sulla trinità appare la Madonna. Con questo film – e in maniera definitiva – l’autore rinnega il proprio background religioso e nello scontro inevitabile tra due opposte “weltanschauung“, sembra fornirci una visione del mondo non solo lucidamente nichilista ma serenamente disincantata. L’abiura per una dottrina che ha mistificato la realtà provocando anche dolore e oppressione – anello di congiunzione con il potere più bieco – non implica, però, il disprezzo di Buñuel per il naturale ed umano senso del sacro che è piuttosto ricerca essenziale di una felicità che è e deve essere dentro di noi. Non mancano le provocazioni sulfuree, gli sberleffi surrealisti, gli steps logico-temporali, le contraddizioni perché lo sviluppo del film si basa sul paradosso inserito di volta in volta negli episodi per capovolgere quel che afferma il senso comune. Durante un temporale, ad esempio, i due chiedono a Dio di fornire una prova della sua esistenza incenerendoli ma non accade nulla, una volta, però, giunti al coperto il fulmine arriva: in ritardo. Ci affascina, ci conquista, ci lacera dentro. Ci colpiscono i consueti exploit registici dal momento che qui tutto è “tecnicamente” meraviglioso: i movimenti di macchina ora lenti ora nervosi del celebre operatore Gabriel Figueroa, il montaggio perfetto, la fotografia di Christian Matras impostata sui toni bruni e grigi e su improvvise accensioni che rompono l’omogeneità del complesso. Per “Il fascino discreto della borghesia” Buñuel recupera – quarant’anni dopo Un chien andalou e L’âge d’or – il surrealismo e lo riversa addosso agli spettatori, mettendo in scena il fascino o l’orrore della borghesia, o meglio il fascino ed anche l’orrore – entrambi sempre discreti e sempre presenti – della bassezze di una classe sociale che ha il potere ma non la felicità. Ben rappresentati dai personaggi di un ambasciatore sudamericano, di due coppie bene (i Thévenot e i Senéchal) dedite al traffico di droga, di una terrorista, di una signora stravagante (parente dei Thévenot) di un plotone di soldati con il loro colonnello e di altri minori. Non c’è alcun senso nella sarabanda orchestrata dall’autore – o, forse, ci sono molti significati – c’è solo un caos incongruente: il che è lo stesso. In questo film, però, il senso non conta. Vedremo che conta la meccanica. Questa bella e raffinata accolita vorrebbe cenare ma non ci riesce perché una serie incredibile di contrattempi (secondo la logica surrealista: illogica solo in apparenza, fortemente logica in realtà) impedisce i gesti e lo svolgimento delle situazioni proprio nel momento culminante. I personaggi sembrano in armonia ma non è poi così vero se l’arrivo di strane incongrue figure (ma perfettamente consone all’insieme inverosimile) – un giardiniere, un vescovo, un ispettore di polizia – genera fastidio e tensione e rinvii. Un invito a cena diventa vana ricerca di un ristorante perché il ristorante scelto è stato adibito a camera ardente per il proprietario da poco defunto, una festa è interrotta dall’arrivo di militari, un’altra cena si svolge su un palcoscenico davanti al pubblico e un’altra ancora viene fermata dalla polizia che arresta tutti per contrabbando di droga. Niente di male perché si può sempre ricominciare fra sogno e realtà. Sul finire compare una strada di campagna: eccoli prima camminare poi correre sempre più svelti. Sberleffo elegante. Una pernacchia in puro stile surrealista come s’era detto. Buñuel sconvolge la successione temporale, rifiuta la verosimiglianza e gioca sulla ripetizione degli atti mancati (le due coppie che non riescono mai a mangiare) ovvero costruisce il film sulla meccanica dei gesti interrotti. Colloca i personaggi in situazioni riconducibili sì ai generi tradizionali (la commedia, il cinema politico, quello poliziesco, il vaudeville) ma in una dimensione onirica che lo spettatore non è in grado di separare dalla realtà narrativa. Nonostante l’eclissi di senso, però, il film scorre fluidamente, non appare “strano”, non si percepiscono scarti che lo interrompano. Ancora una volta per Buñuel il bersaglio è la borghesia. Parassitaria, ritualistica, maneggiona, saccente, nevrotizzata. E quanto più è feroce la satira tanto più il suo autore si diverte e ci diverte (la distruzione definitiva della verosimiglianza narrativa ai fini di un caustico commento sociale) Questo, in fondo, è il motivo che rende “Il fascino discreto della borghesia” uno dei film migliori del regista spagnolo: il paradosso, cioè, di un’opera solo all’apparenza disimpegnata e assurda ma, invero, intrisa di una rigorosa visione “antisistema” del mondo. (Nicola Pice)

La via lattea (1969)

Il fascino discreto della borghesia (1972)



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