Nelle note di copertina che accompagnano la ristampa di Plasticland, John Frankovic e Glenn Rehse parlano più dell’Europa che della loro terra. Così come facevano nella loro musica, del resto. Nati a Milwaukee nel 1980 ma ossessionati dalle produzioni di Hurricane Smith (Rubber Soul, Ummagumma, S. F. Sorrow, The piper at the gates of dawn, Parachute) e dalle vetrine in technicolor della Swingin’ London, i Plasticland furono i più inglesi tra i gruppi revival americani di quel decennio. Ironia della sorte e beffa del destino, non avrebbero mai coronato il sogno di suonare in Inghilterra ma è tuttavia in Europa (esattamente in Francia) che il loro album di debutto viene stampato prima che nel resto del pianeta. Si tratta in realtà di una raccolta di pezzi pubblicati dalla band in varia guisa sulla loro Scadillac Records ma la visibilità concessa al formato long playing serve a spadellare il nome dei Plasticland dai vassoi degli amatori verso piatti numericamente più consistenti nonostante il gourmet del gruppo del Wisconsin rimanga parecchio prelibato e, per qualcuno, finanche indigesto. Le canzoni dei Plasticland risuonano di segreti freakbeat carpiti dai manuali di band come Move, Syn, Smoke, Attack, Status Quo, Creation, Pretty Things, Tomorrow, Pink Floyd e di fluttuanti eco di musica teutonica (Neu!, Guru Guru, Amon Dull) e vapori di jazz cosmico portati in dono da Brian Ritchie (fanatico, già allora di John Coltrane, Sun Ra e Pharoah Sanders). Muri di suono acido innalzati su mattoni di chitarre fuzz e fluttuanti, stanite armonie di mellotron e liriche totalmente fuori di testa. Così nascono pezzi come Her Decay, Rattail Comb, Color Appreciation, The garden in pain, Elongations, Disengaged from the world, Posing for pictures (che rivela tutta la loro venerazione per i vestiti sfavillanti in stile Carnaby Street) e cover stravolte come Alexander e Magic Rocking Horse. Così nasceva la leggenda di una band dal suono atipico. Così rinasce, oggi, il loro ricordo. (Franco Dimauro)
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