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Recensione: Soul Coughing – Ruby Vroom (1994)

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Nel 1993 la Slash si trova orfana di una delle band più eccentriche del suo catalogo, ovvero le Violent Femmes. La necessità di rimpiazzarli si concretizza mettendo sotto contratto un gruppo di New York dal suono scriteriato e pazzoide chiamato Soul Coughing. Che col suono del gruppo di Milwaukee ha poco a che spartire se non che Ruby Vroom ha la stessa genialità trasversale e busker del debutto di quel terzetto lì. A dialogare, qui, ci sono un contrabbasso, una batteria jazz e un sampler. Macchinette infernali che permettono a Mike Doughty di poter cantare su un campione di Toots & The Maytals, di Howlin’ Wolf o Raymond Scott, su una linea di basso rubata a Thelonious Monk, su una rullata marocchina o su una segreteria telefonica. Anzi, due. Una dedicata all’amore casalingo. L’altra, all’amore a pagamento. Osando pure di profanare il tempio dei Fugazi.
È la versione bianca e intellettuale del Jazzmatazz di Guru. Quella meno pappona e pulp del soul grasso dei Fun Lovin’ Criminals che uscirà fuori dalle fogne della stessa città solo qualche mese dopo. O ancora, quella più giocherellone e stranita del jazz depresso degli Spain che pioverà dalla California l’anno successivo. Un disco cannibale che si nutre di cose poco ordinarie per metterne su una altrettanto straordinaria. Genio e sregolatezza, dentro Ruby Vroom. Disco che ha il coraggio di sfidare l’onda di reflusso del grunge e quella d’urto del punk mettendo sul tavolo gli alambicchi del piccolo alchimista. Unendo davvero tutti, o quasi tutti. Come le belle donne. Finendo per essere desiderati da tutti. Come le belle donne. Da Jeff Buckley a Dave Matthews. Da Roni Size ai Violent Femmes stessi. Dai cornicioni del Palace Theatre, i Soul Coughing cagano sulle teste dei passanti. Come piccioni dispettosi. (Franco Dimauro)



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