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(Ri)visti in TV: Germania anno zero di Roberto Rossellini (1948)

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In una Berlino sfigurata dalle macerie della guerra, Edmund, ragazzo di appena tredici anni, sbarca duramente il lunario lavorando al cimitero (scava le fosse). Riesce in questa maniera a mantenere l’intera famiglia: la sorella, l’anziano padre malato di cuore ed il fratello che vive nella clandestinità della comune abitazione per la paura d’esser arrestato a causa della militanza nazista. La sua giovane età determina, però, la perdita del lavoro. Gli viene in soccorso l’omosessuale Henning, il suo vecchio maestro, con pulsioni pedofile, che gli indica una via d’uscita indirizzandolo verso traffici illeciti: piccoli furti, mercato nero, persino la vendita agli americani d’un disco su cui è inciso un discorso di Hitler. Ad ogni modo la situazione familiare continua a peggiorare: la salute del padre è diventata molto precaria (nonostante una raccomandazione il suo ricovero ospedaliero si esaurisce rapidamente), la sorella è costretta a prostituirsi ed i rischi a cui si sottopone il fratello maggiore sono aumentati. Emotivamente provato da questa condizione, Edmund si confida con Henning che gli illustra la teoria nazista secondo cui nella natura devono sopravvivere solo i più forti e che le persone malate e deboli, al contrario, devono essere soppresse per non creare problemi di sorta. Il ragazzo avvelena, pertanto, suo padre con il tè ma, dopo aver riferito il suo gesto ad Henning, viene cacciato dal maestro che è preoccupato che in qualche modo qualcuno possa ritenerlo responsabile. Edmund, scosso per l’accaduto ed in preda ai sensi di colpa, fugge vagando senza meta tra le macerie della città. Nessuno lo accoglie, tutto gli sembra ostile ed estraneo. Sale in cima ad una casa diroccata, vede giungere il carro funebre che preleva la bara del padre defunto e si suicida gettandosi nel vuoto. Germania anno zero (1948) conclude la trilogia dedicata alla guerra da Roberto Rossellini e senza alcun dubbio ne rappresenta il momento più cupo e disperato. Il primo capitolo, Roma città aperta (1945), era stato l’atto fondante del “neorealismo” e, infatti, aveva indicato i tratti peculiari di un movimento culturale e cinematografico tra i più significativi del ‘900 caratterizzato soprattutto da un forte impulso etico, prima che artistico, dalla volontà di portare sullo schermo la realtà sociale depurando la visione da orpelli estetici ed artifici retorici. Girato in esterni con un cast misto di professionisti e dilettanti, l’opera, dal tessuto corale e senza un vero protagonista, presentava una struttura narrativa spezzata, ellittica e sostanzialmente aperta. Anche il successivo Paisà (1946) appariva smembrato, confezionato in singoli episodi che, collegati soltanto da stralci di cinegiornale, ripercorrevano il rapporto tra i soldati americani e la popolazione italiana durante l’avanzata degli alleati dalla Sicilia al Po. Il secondo film della trilogia probabilmente costituisce l’acme dell’attitudine di questo autore alla dissoluzione minimalista della drammaturgia tradizionale: la narrazione, povera di azioni spettacolari, è un cumulo di eventi che sono presentati come frammenti autonomi senza troppi passaggi esplicativi o nessi causali. In fondo Rossellini, nonostante molti autori firmino il soggetto dei suoi film, gira senza una vera e propria sceneggiatura perché la sua opera nasce sul set e dal set prende vita autonoma. “Germania anno zero”, invece, appare differente: probabilmente in quanto atto conclusivo d’una lunga riflessione sulle ferite morali inferte alle popolazioni e, in modo particolare, alle creature più giovani dal conflitto bellico, include gli stilemi del neorealismo ma li trasforma in un “oggetto cinematografico” che tende “già” al superamento stesso di quel movimento. Senza dubbio il carattere morale della rappresentazione pone l’aspetto tecnico-linguistico in secondo piano ma, differentemente che nelle precedenti opere, la macchina da presa non è così “nascosta”. Anche in “Germania anno zero” ricorrono una certa continuità di ripresa contro le tecniche troppo palesi di montaggio ed una luministica essenziale – la fotografia in esterni è quasi neutra, poco contrastata e grezza perché naturale – ma la de-drammatizzazione dell’intreccio narrativo non è più così accentuata. I momenti tragici, infatti, non sono posti sempre sullo stesso piano delle banali azioni quotidiane anche perché l’opera ha un tono sempre molto intenso e le sequenze descrittive hanno, quindi, il compito di preparare l’azione drammatica che segue (pensiamo alla lunga digressione che precede l’epilogo). La vicenda di Edmund si perde, dunque, solo in apparenza in deviazioni episodiche e digressioni laterali rispetto alla linea principale del racconto (altro elemento peculiarmente “neorealista”) ma, invero, esse contribuiscono in maniera fondamentale a rivelarne il sostrato ambientale ed umano. Si può sostenere senza smentita che Rossellini ha sempre a cuore la rappresentazione delle sofferenze materiali e psicologiche della gente comune ma non rinuncia stavolta alle belle inquadrature (come aveva affermato di fare in passato) con un metodo che unisce il rigore alla spontaneità: le carrellate in esterni di Edmund che passeggia tra le macerie possono annoverarsi, ad esempio, tra i momenti più alti della storia del cinema italiano. Se, dunque, molti elementi dell’opera sono formalmente naturalistici al fine di elidere i confini tra la finzione imposta dal racconto cinematografico e la realtà, l’incedere narrativo dilatato e le riprese espanse in porzioni di spazio indefinito (la spettrale città di Berlino) conferiscono a “Germania anno zero” un ”allure” irrequieta ed insieme meditabonda, un andamento da incubo foriero di tragedie irrisolvibili che anticipa le inquietudini esistenziali del grande cinema d’autore italiano che verrà (Antonioni e Fellini su tutti). La conclusione di un’analisi (che è durata la lunghezza di ben tre film) è per Rossellini così disperata da non lasciar spazio alcuno alla speranza: non è possibile la comprensione e la solidarietà, esse sono definitivamente sepolte sotto il cumulo delle macerie (morali) lasciate dalla guerra e non si possono più portare in vita dal momento che nel mondo vige ormai la pura legge della sopravvivenza che non prevede posto alcuno per chi è più debole. L’atroce suicido elimina metaforicamente anche l’indeterminatezza problematica dei finali aperti tipici dei film del neorealismo. Non c’è nessun fraintendimento, infatti: Rossellini assume lo stesso punto di vista della macchina da presa che è al contempo anche quello del popolo tedesco (e di tutti i popoli sconfitti dalla guerra) e di Edmund nella esemplificazione di una sostanziale impossibilità di rinascita o di redenzione purificatrice. La “performance” nichilista di Germania anno zero equivale per l’autore anche a una dichiarazione d’intenti: la (personale) chiusura della stagione neorealista che, in maniera decisiva, aveva contribuito a fondare. Rossellini, complice anche una profonda crisi personale, canta il requiem ad un certo tipo di cinema di denuncia civile per manifesta sfiducia nella capacità che esso possa incidere nel tessuto sociale. Dal quel momento in poi, conservando lo stesso approccio antiretorico e antispettacolare, accentuando – se possibile – le ellissi e gli intrecci dedrammatizzati – si dedicherà all’analisi dei dissidi interiori dell’individuo e al suo rapporto con una società sempre più ostile e spietata. (Nicola Pice)



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