Senza dubbio alcuno, Jean-Luc Godard è stato l’autore più ermetico e intellettuale della nouvelle vague (probabilmente solo Alain Resnais della coeva “rive gauche” potrebbe essere considerato altrettanto cerebrale) mostrando attraverso un complesso percorso l’intento preciso di fare critica filmata che puntasse diritto ad una contestazione delle forme di base del cinema, reinventate (quasi puntualmente) in ogni suo film. Già all’inizio della sua produzione, il discorso narrativo viene diluito (o elevato) in un discorso più astratto e critico, intessuto di aforismi e citazioni, che determina una totale destrutturazione del racconto: pur avendo alla loro base, dunque, storie di genere, le opere di Godard sono soprattutto congegni metalinguistici in cui l’autore inserisce di continuo rimandi intertestuali tra le varie discipline. Potremmo definire i film del regista francese saggi aperti e frammentati in cui spregiudicatamente si mescolano analisi sociologiche, tesi politiche e provocazioni estetiche (stupefacenti dal punto di vista visivo, infatti, sono le innovazioni alla sintassi cinematografica di questo autore). Dopo gli “anni Cahiers” e gli “anni Karina” (dal cognome della sua prima moglie, anche attrice-feticcio) – secondo una periodizzazione dello stesso regista e, dunque, quella più appropriata essendo l’opera di questo regista catalogata in maniera differente dalle varie correnti critiche – si erano aperti per Godard gli “anni Mao”, gli anni dell’impegno militante nella sinistra extraparlamentare in cui l’anarchia visiva era messa al servizio di idee politiche rivoluzionarie con procedimenti metacinematografici ancor più esibiti e con la tendenza a utilizzare gli schemi del cinéma-vérité. “Crepa padrone, tutto va bene” (1972) si inserisce con naturale coerenza (anche se sono passati cinque anni e altri tre film) in quella fase filmica che era iniziata con “La Cinese” del 1967 opera, a sua volta, pilastro d’una pentalogia sulla Francia e i francesi apertasi con “Il maschio e la femmina” del 1966 e conclusasi con “Weekend” (sempre nel 1967). Siamo a Parigi: la giornalista americana Susan e il regista pubblicitario Jacques entrano in una fabbrica di salumi, occupata dagli operai, per documentare la vicenda. Osteggiati dagli occupanti perché ritenuti omologhi ai padroni, estranei non graditi, i due vagano per la fabbrica ed entrano in crisi come coppia a causa della convivenza forzata con il mondo del lavoro. Che senso ha la loro vita insieme? Susan non è più in grado di trovare la maniera migliore per spiegare al pubblico i suoi reportage e Jacques ripercorrere con malinconia le tappe della sua carriera da regista dal maggio del ’68 alla pubblicità. L’azione si sposta in un supermercato dove irrompe un gruppo di estremisti che saccheggiano gli scaffali e mettono le merci a disposizione di tutti. Arrivano i poliziotti che bastonano i saccheggiatori e saccheggiano a loro volta. “Crepa padrone, tutto va bene” è pura critica godardiana alle istituzioni borghesi: dopo le tensioni sociali sfociate nella crisi generale del ’68, l’autore, infatti, è in prima fila nella lotta per una radicale trasformazione sociale e politica e il suo cinema diventa strumento della rivoluzione. Anche in questa circostanza, però, Godard (affiancato nella regia dal filosofo, giornalista e critico Jean Pierre Gorin) si tiene ben lontano dalla linearità del cinema tradizionale e mescola le carte e i temi trattati dando vita ad un originale esperimento linguistico in cui la vis antisistema va a braccetto con lo spirito pedagogico e in cui l’avanguardia non rinuncia alla spettacolarizzazione visiva. Prevalente, di certo, è la rappresentazione della degenerazione della società capitalistica e della sua brutalità repressiva nei confronti della parte più debole ed indifesa del sistema produttivo (da cui la necessità d’un cambiamento repentino in senso egalitario/collettivistico) ma l’autore, fedele ad uno spirito che non ha dimenticato l’anarchia delle origini, non rinuncia a mostrare anche alcune “personali” perplessità sulla realizzazione effettiva d’una palingenesi sociale a partire dalle contraddizioni proprie al “fare cinema”. Prima dello svolgimento dell’opera, ci viene mostrato come si produce concretamente un film – le macchine da noleggiare, gli attori da scritturare, gli assegni da firmare – metafora stessa della difficoltà di educare le masse con uno strumento che, per la sua stessa natura, è strettamente dipendente da meccanismi economici che replicano le logiche del sistema capitalistico. Quando il film è cominciato, invece, ci viene mostrata la fabbrica ricostruita in studio, ripresa frontalmente con gli ambienti allineati su due piani, in spaccato come se ci trovassimo in una scenografia teatrale. Infatti si parla molto alla stregua di una pièce teatrale e ci si confida di tutto fino a che emerge l’inautenticità stessa dei rapporti umani “al tempo del capitale”…ça va sans dire. L’aspetto formale dell’opera è di raffinata eleganza e questo rende “Crepa padrone, tutto va bene” uno dei film più accessibili di Godard: colori morbidi, scene brillanti e funzionali, effetti fotografici complessi, recitazione ispirata di attori famosi (Jane Fonda, Yves Montand) e due lunghissimi, straordinari piani-sequenza di pregevole fattura (lo spaccato della fabbrica e il saccheggio del supermarket). Tra declamazioni moraleggianti, entusiasmi e provocazioni quest’opera rende giustizia, dunque, ad un autore nella pienezza dei propri mezzi espressivi. (Nicola Pice)
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