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Ri(visti) in TV: Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni (1970)

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Gli studenti universitari della città di Los Angeles si riuniscono in affollate assemblee. Contestano il potere rappresentato dalle istituzioni tradizionali ed ogni aspetto della vita sociale. Durante una manifestazione piuttosto agitata un poliziotto viene sparato e perde la vita. Fra i sospettati vi è Mark che dopo una breve clandestinità, fugge e s’impadronisce di un piccolo aereo da turismo con il quale si dirige verso il deserto situato al di là delle colline che circondano le zone inurbate. Dall’alto il ragazzo scorge una vecchia automobile e, abbassatosi, nota che alla guida v’è una ragazza – Daria – con la quale dopo qualche schermaglia verbale decide di raggiungere Zabriskie Point, un semplice tratto geografico posizionato all’interno del deserto della Death Valley. Qui fanno l’amore immaginando d’essere in compagnia di tante altre coppie impegnate nel medesimo atto. Nemmeno l’arrivo di un poliziotto a cui Mark vorrebbe sparare (sarà dissuaso da Daria) impedisce loro di dipingere l’aereo con vivaci colori. I due ragazzi, alla fine, decidono di separarsi. Mark raggiungerà in volo Los Angeles per trovarvi la morte, ucciso per mano di due poliziotti. Daria, invece, raggiunta a Phoenix la villa dell’avvocato Allen, uno spregiudicato uomo d’affari che lottizza porzioni del deserto per speculazioni edilizie, apprende dalla radio la notizia della morte di Mark. Immagina di far saltare in aria la villa e al tramonto si allontana dalla lussuosa abitazione. Con “Blow-up” (1966) Michelangelo Antonioni era entrato in un filone cinematografico radicalmente autoriflessivo al servizio della “messa a nudo” della reificazione della cultura di massa. Quattro anni più tardi “Zabriskie Point” rimescola violentemente le carte in tavola per disorientare critica e pubblico. Solo in apparenza dedicato alla contestazione studentesca (e, per questo motivo assimilato erroneamente al coevo “Fragole e Sangue” di Hagmann, apprezzabile ma diversissimo) racchiude una serie impressionante di provocazioni che rendono pressoché impossibile distinguere gli innegabili riflessi esistenziali del suo autore dagli elementi di analisi politica e di critica sociale. Sullo sfondo dei cambiamenti sociali sessantottini viene rappresentata una storia di amore (e morte), l’incontro di due solitudini, di due anime quanto più lontane possibili si possa immaginare, la fuga da un mondo impossibile e l’avventura verso un mondo improbabile alla ricerca di una felicità probabilmente impossibile. È solo un caso che il teatro di questi avvenimenti sia l’America (la California, il deserto del Mojave, il campus universitario di Los Angeles), la frontiera di un (possibile) nuovo mondo (migliore?!) già contaminato dai vizi di quello che abbiamo conosciuto? Oppure che la messa in scena si svolga sugli scontri universitari (filmati con freddezza quasi documentaristica), che prosegua con l’odissea nel deserto ed abbia termine con la morte di Mark e che l’allucinazione (!?) della sua ragazza Daria…non sia (più probabilmente) lo strumento di cui Antonioni si serva per precostituire un inquietante e lontano ambiente “alieno” in cui avvolgere due esseri umani confusi e smarriti nel deserto della contemporaneità? L’autore non vuole chiarire (semmai spargere incertezze), porre – forse – le fondamenta di un’opera aperta, di una maniera differente di rappresentare la realtà in cui fluidamente gli oggetti e, dunque, gli stessi esseri umani acquistino nuovi significati in un rinnovato ordine di senso. Agli spettatori attoniti, al contempo affascinati ed infastiditi, rimangono, alla fine, i segni di un anomalo straniamento, di un film “comunque” delirante, rivoluzionario, debordante, speranzosamente utopico ma drammaticamente cinico, angoscioso ma liberatorio, hippy eppure iconoclasta, pervaso da uno spirito anarchico. Resta la forza assoluta di immagini tra le più devastanti della storia del cinema: lo scontro fra i contestatori e la polizia a Los Angeles, l’incontro fatale nel deserto del Mojave fra Mark e Daria, l’idilliaca, estatica ed estetizzante scena d’amore a Zabriskie Point al suono della chitarra di Jerry Garcia, l’apocalittica esplosione finale (girata con 17 macchine da presa su musica dei Pink Floyd con isteriche urla in pura cacofonia di Roger Waters) sul cui significato sono stati versati fiumi d’inchiostro (allegorica cacciata dal Paradiso terrestre o autodistruzione della società consumistica?). Nella perfezione del connubio tra immagini e musica (il lascito stilistico maggiore di quest’opera) ci viene affidata una parabola sulla libertà che deve esser vissuta come fosse un’esperienza psichedelica. Disse Alberto Moravia: “… è esplosa l’arte di Antonioni”. (Nicola Pice)

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