(Ri)visti in TV: Il lungo addio (1973) di Robert Altman

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Los Angeles: Philip Marlowe riceve la visita di un suo amico – Terry Lennox – che gli racconta di essere stato aggredito dalla moglie Sylvia e gli chiede di accompagnarlo in Messico. Al ritorno la polizia lo incrimina per complicità nell’assassinio di Sylvia Lennox. Nel frattempo Eileen Wade lo incarica di rintracciare suo marito, un noto scrittore in crisi, e, per di più, riceve una lettera da Terry Lennox che gli annuncia il suicidio ed è assalito da un gangster che pretende da lui un’ingente somma di denaro che lo stesso Terry gli deve. Non bastasse, una sera in casa Wade vede lo scrittore che “si annega” in mare e viene a sapere che costui era l’amante di Sylvia e che l’aveva uccisa. Le (fin troppe) coincidenze insospettiscono Philip Marlowe che si reca nuovamente in Messico e scopre che Terry non s’è affatto ucciso e che, al contrario, è stato lui ad assassinare la moglie Sylvia e che ora è in attesa nella sua villa di Eileen e della sua ricca eredità. Consapevole d’essere stato tradito nell’amicizia, ammazza Terry e se ne va mentre sopraggiunge Eileen. Quando sugli schermi cinematografici vede la luce Il lungo addio (1973), Robert Altman s’è già imposto come uno degli autori più significativi del nuovo cinema americano, una personalità capace non solo di rivisitare tutti i generi in modernissime ottiche critico-esistenziali ma soprattutto di realizzare una sintesi efficace tra le regole commerciali di Hollywood e la libertà stilistica del cinema d’autore. Il suo quinto lungometraggio (M.A.S.H., 1970) aveva vinto il festival del cinema di Cannes ma Altman, dopo un western completamente sui generis come I compari del 1971 e uno stravagante, quanto incompreso, film sperimentale, Images del 1972, nello stesso anno in cui gira il picaresco gangster-movie Gang (Thieves like us), non smette di stupire il pubblico confezionando un’opera intrisa al contempo di soave cinismo e struggente malinconia. The long goodbay è la sesta riduzione cinematografica di un romanzo di Raymond Chandler uscito nel 1954, in apparenza un omaggio al mito di Marlowe, icona stessa del private-eye, più probabilmente, sin già nell’esplicita titolazione, l’addio ad uno stile letterario e a un genere filmico, il noir. “Mandare in pensione Marlowe”: è questo lo scopo (!) del film di Altman? Di certo sfidare la tradizione, proporre una (possibile chiave di) lettura differente di un topos classico, fornire un’interpretazione del tutto originale della figura dell’investigatore. Infatti, il regista affida il detective alla faccia buffa di Elliot Gould e il Philip Marlowe recitato dall’attore americano, pur essendo per molti aspetti l’erede dei suoi predecessori, se ne allontana per il porsi sempre ai margini della scena, dinanzi a situazioni più subite che determinate e per un atteggiamento verso gli eventi che è manifestatamente ironico e distaccato ma profondamente amaro. Il lungo addio è, quindi, un’opera del tutto anomala in cui Altman, rinunciando alla tensione e alla ricerca dell’assassino, accantona ipso facto i meccanismi narrativi del noir per gettare uno sguardo pessimistico sul mondo dorato di una California dal volto pulito e accattivante ma dal cuore feroce. Il point of view, in tutta evidenza, non è quello del celebre investigatore chandleriano ma quello dell’autore così come l’oggetto d’analisi non è più (o non è più soltanto) l’assassinio ma l’amicizia e le motivazioni (la passione e l’avidità) che ne determinano il suo tradimento che, in fondo, costituisce il vero delitto. Marlowe, infatti, è un individuo dalla complessa personalità, che si muove su una (sottile) linea di confine, in bilico tra moralità e trasgressione, che è, comunque, fedele a pochi valori ma, dopo aver subito l’inganno e il tradimento dell’amico, non può che perpetrare la propria condizione solitaria portando a compimento – a sua volta con un omicidio – un dramma esistenziale senza speranza, permeato di nichilismo. Il film è visivamente superbo (la composizione figurativa delle inquadrature è di raffinatissima accuratezza) e, infatti, appaiono di grande rilevanza formale le morbide carrellate con cui la MDP accentua negli interni il punto di vista emotivo del protagonista che osserva, claustrofobicamente “costretto”, la “fauna sociale” californiana, inautentica e corrotta, e soprattutto l’eccezionale lavoro fotografico del maestro ungherese Vilmos Zsigmond che, da un lato, cattura con straordinaria sensibilità gli affascinanti paesaggi in cui si svolgono le disavventure dei protagonisti (in questo caso Altman restituisce nel montaggio la profondità di campo) e dall’altro, privilegiando un’illuminazione dai toni tenui, virata leggermente al color seppia, conferisce all’intera opera un’atmosfera di malinconica decadenza che rende con grande efficacia il senso della lunga serie di (personali) addii a cui il titolo allude (l’addio al fare un film di genere noir e, con grande probabilità, l’addio a fare un film “a” e “su” Hollywood). The long goodbye, elegante, lentissimo, languido ma, al contempo, spietato e implacabile, ha lo spessore di un capolavoro di rara intensità con il quale Robert Altman, attraverso la figura solitaria di Marlowe e del suo atroce contesto ambientale e sociale, mette in scena non solo il tramonto dell’american way of life, ma soprattutto, con la progressiva dissoluzione dei valori più autentici, una delle più gelide rappresentazioni del male di vivere a stelle e strisce. (Nicola Pice)


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