Stanley Kubrick si dedicò a molti progetti – dopo la realizzazione e l’uscita di Full Metal Jacket (1987) – che furono accantonati per motivi differenti. Il soggetto chiamato “Artificial Intelligence”, basato sulla science-fiction “Supertoys last all summer long” di Brian Aldiss, fu abbandonato per l’impossibilità di riprodurre le immagini di fantascienza evocate dal racconto con la tecnologia degli effetti speciali dei primi anni ‘90. La storia intitolata Aryan Papers, invece, ispirata al romanzo “Wartime lies” di Louis Begley che avrebbe dovuto raccontare le vicissitudini di un ragazzo ebreo e della zia nella Polonia occupata dai nazisti durante la seconda guerra mondiale, fu messa da parte perchè considerata troppo simile allo spielbergiano Schindler’s list. Nel dicembre del 1995, dunque, durante le trattative con le companies ILM e Digital Domain per la realizzazione delle scenografie e per lo sviluppo degli effetti speciali di “A.I.”, il cui interesse per Kubrick non era mai davvero venuto meno, la Warner Bros. annunciò che il regista americano avrebbe realizzato Eyes Wide Shut, un film basato sul romanzo breve “Doppio sogno” (Rhapsody: a dream novel) di Arthur Schnitzler del 1926, le cui riprese, pertanto, iniziate nel 1996, si protrassero per 18 mesi e si conclusero nel giugno del 1998. Uscito negli USA a luglio del 1999 dopo la morte dell’autore avvenuta il 7 marzo di quell’anno, “Eyes wide shut” può essere considerato a ragion veduta una sorta di lascito cinematografico: la (ri)prova, putroppo conclusiva, del magistero kubrickiano. La trasposizione dell’opera di Schnitzler, comunque, ha una differente collocazione spazio-temporale ed è, quindi, la New York contemporanea (in luogo della Vienna di fine ottocento) il teatro delle vicende di questa giovane coppia dell’upper class che entra in crisi quando, in maniera apparentemente casuale, emergono fantasie e perversioni sopite e appena sfiorate e gelosie e adulteri immaginari. L’oggetto dell’analisi dell’autore americano è, dunque, soprattutto (ma non solo) l’eros (le dinamiche che da esso vengono generate) sin già nel corso dei titoli di testa in cui viene rappresentata gran parte dell’inquietudine lubrica che pervade l’intero film: “l’occhio” del regista (e dello spettatore) si apre sulla schiena della Kidman/Alice che con sinuosi movimenti fa scivolare sul pavimento l’abito da sera restando nuda e si chiude, poi, altrettanto repentinamente per riaprirsi sulle strade della notturna metropoli newyorkese. È l’incipit, quindi, a suggerire il senso stesso del film: un percorso di progressiva conoscenza e consapevolezza mediante la metafora dell’occhio (lo strumento privilegiato della visione). L’occhio chiuso indica una condizione di smarrimento e di confusione e, al contrario, l’occhio aperto rappresenta la presa di coscienza di sé (della coppia) e del mondo esterno dopo le tenebre. È l’eros – la sempiterna legge del desiderio – a mettere in moto questo viaggio (nel subconscio?) determinando una discesa negli ambigui gironi della libido dove niente somiglia più a ciò che è veramente. Il cammino dei due coniugi lungo la strada dell’autocoscienza si dispiega parallelamente per convergere soltanto nella ricomposizione finale: quello di Alice avviene completamente all’interno della sfera psichica (il tradimento con l’ufficiale è stato solo immaginato) e verbale (il racconto di quel tradimento vagheggiato al marito), quello di Bill, invece, è più empirico (il bacio ricevuto da Mary al capezzale del padre morto, la visita alla prostituta Domino, l’orgia nella grande casa) anche se Kubrick non rende comprensibile fino in fondo se questo percorso sia stato reale o, invece, la proiezione onirica delle sue fantasie sessuali. Bill, intimamente certo che Alice le fosse stato sempre fedele, infatti, rimane sconvolto, il giorno dopo la festa durante la discussione sui comportamenti maschili e femminili, dalle confidenze della moglie che frantumano l’immagine che lui s’era fatto di lei (la maschera che lui le mette?). La confessione di Alice, piccata ma al fondo sincera, è la miccia che fa esplodere, quindi, la gelosia in Bill e un forte desiderio di tradimento che determina la sua caduta in una sorta di inferno dantesco durante il quale vengono scandagliate e messe in discussioni tutti gli stereotipi sulle donne ma, nonostante tutto, egli non può portatre a compimento nessuna delle relazioni con queste donne “immaginarie” ma soltanto con la propria moglie “reale”. Bill deve “rassegnarsi” all’idea che anche Alice, moglie e madre, sia sessualmente, emozionalmente e intellettualmente consapevole quanto lui e forse anche più di lui. All’inizio le risposte di Bill sono distratte e avvengono senza che egli volga lo sguardo ad Alice ma dopo la sua confessione riprende a guardarla e, in seguito, dopo averle a sua volta rivelato le esperienze vissute in una specie di allegorico sogno ad occhi aperti, possono di nuovo comportarsi come una coppia “normale” ricominciando dall’essenziale: fare l’amore. Rimane il dubbio, però, che la ricomposizione sia solo un’operazione di vile ipocrisia, il buen retiro nei rassicuranti stereotipi della coppia borghese: shopping natalizio, cura dei figli, repressione delle pulsioni. Il finale esemplificherebbe il pessimismo kubrickiano rispetto all’assunto iniziale del film: il perdersi per poi ritrovarsi non costituisce un auto-cosciente miglioramento ma solo la sensazione di aver vissuto un incubo-sogno ad occhi aperti. La follia, cioè, dell’eterno ritorno nietzscheiano – paradigma della società occidentale – per cui nessun evento produce un cambiamento reale ma solo la riproposizione di auto-referenti clichè: “ritorniamo a scopare” (appunto). Eyes Wide Shut è, dunque, per tutto quanto sovraesposto, nonostante la lunghezza e il ritmo narrativo (difficile non pensare che l’autore, perfezionista com’era, non sarebbe intervenuto con ulteriori manipolazioni in fase di montaggio) l’opera di un autore che, giunto alla realizzazione del suo tredicesimo lungometraggio, non ha ancora smesso di interrogarsi sul funzionamento della psiche umana e sulle dinamiche che regolano i rapporti umani e sociali. La rappresentazione dell’animale-maschio che Kubrick fornisce non è certamente esaltante (di gran lunga peggiore di quella della donna): gli uomini sono tendenzialmente semplicistici (dunque, stupidi) e, nella loro supponenza, misogini e quando, come nel caso di Bill, si rendono conto di non poter controllare i pensieri e i desideri delle loro mogli – quando, cioè, raggiungono la consapevolezza di non poterle possedere – si tolgono la maschera dietro la quale celano i loro sentimenti (Alice lo aiuta a toglierla). Il regista americano, dunque, ritiene che l’eros possa avere significato soltanto all’interno di un rapporto tra due persone che si amano stigmatizzando, al contrario, l’approccio materialistico alla sessualità secondo il quale ogni atto erotico non sia altro che semplice meccanica del gesto, rimedio alla noia di un’esistenza sempre uguale e mediocre o ripetitività consumistica. Inoltre, fra macchine di lusso, luci sfavillanti e appartamenti sofisticati, Kubrick lascia intuire che nella nostra epoca anche il sesso (soprattutto il sesso verrebbe da dire) sia un privilegio riservato ai potenti (emblematico è l’atteggiamento dell’ambiguo Victor Ziegler). La messa in scena dell’orgia, in particolare, equivale alla morte del sesso (o quanto meno alla sua veglia funebre) inteso come momento di appagamento gioioso e al trionfo, invece, dell’artificialità dei corpi: le donne del ricevimento al pari della prostituta svenuta sulla poltrona di Ziegler, e, persino, delle pazienti dello studio di Bill sono sempre oggetti ornamentali, emozionalmente svuotate che non eccitano i sensi dello spettatore ma, piuttosto, lo disturbano. Impregnato di quel moralismo laico tipicamente kubrickiano che prefigura (tema ricorrente nella poetica dell’autore) la distruzione della società comunemente intesa (ad opera forse di quella super potente e corrotta setta segreta a cui allude Ziegler capace di disporre degli esseri umani come burattini?) e l’implosione del sistema-famiglia sentimentalmente impoverito (Bill cerca di vendicarsi del tradimento immaginario di Alice senza prima confidarsi con lei né pensare a sua figlia), infarcito di riferimenti esoterici e cabalistici (ad esempio il concetto del numero due, cioè del doppio: pensiamo agli specchi e alle maschere) e di tòpoi (luoghi comuni) autocitazionisti sempre presenti nelle opere del maestro americano (lo sguardo fisso – Bill che guarda fisso e fisso in basso – l’ossessione per il teatro, i giochi e il travestimento/le maschere, il rimando alle geometrie e all’arte del XVIII secolo), Eyes Wide Shut è probabilmente la più complessa e criptica opera di Kubrick che, ancora una volta, imbastisce una costruzione di eccezionale e sofisticato fascino visivo. L’organizzazione simmetrica delle inquadrature, complessi e snodati movimenti di macchina che attraversano lo spazio con carrellate all’indietro e zoom (nei corridoi della casa di Ziegler e della casa dell’orgia) si uniscono all’alta definizione e al nitore scientifico di una fotografia che fa risaltare sapientemente i personaggi con l’uso della luce come in un dipinto espressionista di Hopper (esemplare è la scena del pedinamento di Bill) e che utilizza i toni del rosso (ad indicare il degrado e la depravazione sessuale: le case e il Sonata Cafè hanno le pareti rosse, il capo dell’orgia è vestito di rosso, la figlia del venditore di maschere esce da una stanza color rosso, etc.) alternativamente a quelli del blu (ad evidenziare il pericolo, la paura, il disagio: lo sfondo in cui Bill immagina Alice con l’ufficiale di marina è blu, le discussioni tra Bill e Alice sono virate al blu, etc.) per poi ricomporsi con un viola-porpora nel finale (il colore delle lenzuola del letto in cui Bill confessa tutto ad Alice è porpora). Per concludere, quindi, Eyes Wide Shut, in quanto viaggio ed esplorazione del subconscio, assume le caratteristiche di un’esperienza visiva che superi le semplificazioni per debordare in un’atmosfera indefinita in cui la vita e l’appagamento dei desideri convergano misteriosamente nel sogno da cui si può ogni tanto uscire aprendo e chiudendo gli occhi. Resta da capire se sia “un bene essersi destati dai propri sogni” e se “sarà meglio rimanere svegli a lungo”. (Nicola Pice)
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