Avere a casa i dischi della Creation fu come vedere un’altra Inghilterra. Collezionarne i suoi sette pollici, significava spiarla dal buco di un 45 giri, assistere al suo spogliarello come quei guardoni delle commedie sexy che regnavano sovrane nella nostra videoteca di adolescenti con gli ormoni deliranti. Sentirsi spettatori e protagonisti di una piccola rivoluzione messa in piedi da un esercito di sprovveduti. Una rivoluzione silenziosa, se paragonata a quella furiosa del punk che la aveva preceduta di qualche anno. Una rivoluzione colorata, se confrontata con il bianconero dominante della scena neogotica che era allora imperante. Una rivoluzione condotta con baionette e mezzi di fortuna, proprio mentre dilagavano le nuove armi sintetiche della new wave che parevano destinate a dominare il mondo e che invece si sarebbero spente al primo black-out. Quasi definitivamente. In quel triennio, nonostante il carburante dell’etichetta inglese si sarebbe esaurito molti molti anni dopo, la Creation fonda, sulle basi del do-it-yourself preso in prestito dal punk, l’etica e l’estetica dell’indie rock come lo si sarebbe inteso per circa un decennio (diciamo finché anche la Creation, per evitare la bancarotta, non si sarebbe lasciata circuire dalla Sony lanciando in orbita gli Oasis). Una musica scompigliata, arruffata. Che guardava agli anni Sessanta (i Byrds, i Velvet Underground, i Deviants, il beat, il garage punk, i Creation) e Settanta (i Modern Lovers, i Television, i Jam, i Fall) e li risuonava con un senso di precarietà, di incertezza che era in esatta antitesi con la ferocia nichilista e gli eccessi estetici delle due stagioni immediatamente precedenti. Un’officina di chitarre sfilacciate e di feedback incontenibile, di ricami jingle jangle e di boccacce storpie. Una pinacoteca, quella messa in mostra dalla galleria Creation, dove ogni artista poteva esporre la sua piccola opera d’arte, azzardare un’ipotesi, tracciare uno schizzo, sporcare una tela, millantare ascendenze colte, amicizie autorevoli, studi importanti. La Cherry Red compie adesso una scelta azzardata “sciupando” l’occasione di riproporre l’intera sequenza dei 333 singoli stampati dalla Creation (il che avrebbe fatto di questo cofanetto uno dei regali imprescindibili per ogni indie-maniaco) ma facendo un fermo immagine su quelli che furono i primi vagiti dell’etichetta di McGee: solo i primi dieci singoli, più un fornitissimo scaffale di merce di “seconda scelta” come demo e versioni dal vivo. Sono dischi messi su con pochi sforzi, finanziati in larga parte con gli introiti del bancone del Living Room gestito dallo stesso McGee sulla Tottenham Court Road e i cui avventori diventeranno, in buona parte, piccole “stelle” del firmamento Creation: Revolting Paint Dreams, Jesus And Mary Chain, Loft, Jasmine Minks, X-Men, Pastels, Meat Whiplash, Primal Scream, Moodists, Weather Prophets, Bodines, Membranes e il resto che trovate qui dentro, in questa che ancora oggi è una delle classi più insubordinate d’Inghilterra. (Franco Dimauro)
✓ MUSICLETTER.IT © Tutti i diritti riservati - 7 Settembre 2015