Categorie: Articolo

(Ri)visti in TV: Persona di Ingmar Bergman (1966)

Pubblicato da


La luce di un proiettore riproduce brani di film alternando immagini molteplici, enigmatiche e incomprensibili, alle mani di un bambino e ai titoli di testa fino a quando una dissolvenza in bianco diventa una stanza bianca: la porta si apre e l’infermiera Alma incontra una dottoressa che la incarica di assistere l’attrice Elisabet Vogler che mentre recitava Elettra è piombata in uno stato di mutismo. Alma che pensa all’imminente matrimonio e al forte desiderio di maternità, cerca di aiutare nella maniera migliore Elisabet che, al contrario, passa il tempo guardando immagini delle guerra del Vietnam e ripudia la famiglia stracciando la lettera inviatagli dal marito e la foto del figlio. La dottoressa decide di trasferire Alma ed Elisabet in una casa al mare per accelerare il processo di guarigione dell’attrice. Le due donne familiarizzano ma mentre Alma confida alla sua paziente i propri desideri e le esperienze più intime, Elisabet, invece, si rifiuta di parlare perché stanca di dover apparire e, peraltro, scrive una lettera alla dottoressa in cui descrive il comportamento poco ortodosso dell’infermiera. Litigano dopo che Alma ne viene a conoscenza per poi riappacificarsi ma ormai l’infermiera ha iniziato un percorso di identificazione con l’attrice anche dinnanzi alla sua famiglia che s’interrompe quando le due donne lasciano la casa al mare: a questo punto il proiettore s’inceppa e la pellicola si accartoccia.

Negli anni ‘60 del Novecento, quando vede la luce Persona (1966), Ingmar Bergman è già un autore di acclamato valore e riconosciute capacità. I temi delle sue pellicole, pur profondamente soggettivi e autobiografici, avevano toccato sfere universali: incubi, ansie, ossessioni ed angosce proprie del regista rispecchiavano il nichilismo, la solitudine e la crisi dell’uomo moderno. Lo stile delle sue immagini, inoltre, gli aveva conferito lo status di raffinatissimo erede dell’espressionismo tedesco: alla profondità di campo naturale dei magnifici paesaggi svedesi, infatti, aveva fatto seguito nelle sue opere la plasticità teatrale delle luci d’interni ed i sofisticati giochi d’ombra al fine di costruire un corpus filmico sempre e comunque proteso allo sviluppo della drammaturgia narrativa e alla valorizzazione (individuale e corale) degli attori e delle loro espressioni. Il successo internazionale di opere complesse e simbolicamente stratificate, “Il settimo sigillo” e “Il posto delle fragole” – l’una meditazione sul (non) senso della vita, l’altra viaggio nei fantasmi della memoria – non aveva tuttavia placato l’inquietudine del regista di Uppsala che, al contrario, decide di radicalizzare nella successiva produzione la tematica della percezione dell’assenza di Dio e gli interrogativi sulla fede mettendo in discussione il proprio modo di fare cinema. Come in uno specchio, Luci d’inverno (entrambi del 1961) e, soprattutto, Il silenzio (1963) sono l’esemplificazione, infatti, di un nuovo linguaggio che abbandona progressivamente il rigore formale per abbracciare tipologie espressive meno convenzionali e più convulse, dissonanti, frammentarie. Il trittico filmico sopracitato segna, quindi, l’inizio di una nuova fase del cinema bergmaniano in cui appare evidente un lavoro di purificazione da ogni orpello sovrastrutturale che si concentra unicamente sui cambi di luce a vista, sul valore generale dell’inquadratura e in particolare del primo piano fino a configurare “drammi da camera” spettrali e laceranti in cui emergano l’interiorità sofferente dei protagonisti se non, addirittura, i conflitti che si agitano nell’inconscio.

La trilogia, (già) conosciuta come del “silenzio di Dio” e ribattezzata, poi, della “regressione” per sottolineare il disagio psichico dei personaggi, pur avendo grande qualità artistica, appare, comunque, come preparatoria alla realizzazione di “Persona”, senza dubbio il vertice del “modernismo” cinematografico di Bergman, opera che incarna in maniera perfetta la volontà di sperimentare del suo autore e che riassume i temi ricorrenti di una produzione ormai ventennale. Prostrato da una condizione depressiva, dopo aver dato le dimissioni dal Teatro Reale Drammatico ed essersi rifugiato nell’isola di Fårö, il regista accarezza l’idea di un film “definitivo” sul doppio: “Persona”, quindi, è la trasposizione cinematografica dell’analisi psicoanalitica (debitrice alle teorie freudiane sul transfert e alle teorie junghiane sul rapporto fra inconscio individuale e collettivo) della duplice maschera indossata da uno stesso essere umano (femminile) che si sdoppia sullo schermo in due personaggi fino a perdere il senso stesso dell’unicità e dell’integrità individuale. Inoltre, se l’attore è l’immagine vivente del “doppio”, Elisabet è immersa in un dramma ancor più grande perché testimonianza di una scissione plurima: come essere umano dall’animo molteplice e cangiante e come attrice sempre pronta ad indossare i panni (la maschera) di un altro.

La catastrofe emotiva di Elisabet, ripiegata su se stessa, chiusa in un mutismo inscalfibile, al riparo da una vita a cui non si può reagire perché sempre diversa e, incomprensibile, non potrà che travolgere anche la solare Alma “forzata” ad identificarsi con lei e alla fine fagocitata dal palcoscenico della vita stessa dove l’uno sbrana l’altro per non esserne divorato in un gioco al massacro in cui alternativamente il carnefice diventa vittima e il prigioniero aguzzino. Capolavoro monologico e subliminale sulla reversibilità delle apparenze e delle esperienze, sulla osmosi dei volti, sulla perdita del sé, sulla metamorfosi dei corpi mediante il dissolversi delle anime, sul confronto tra vita ed arte e, dunque, tra finzione e verità (se mai ve ne sia una), “Persona” è anche un’opera che, utilizzando un linguaggio filmico caotico e disomogeneo, ha l’ambizione di mettere in discussione il ruolo stesso del cinema: l’uso degli abbacinanti bianchi saturi, i bruschi cambi di direzione della colonna sonora, un montaggio franto e disarmonico che non segue mai il ritmo narrativo sono la metafora di un caos insignificante che il cinema/l’arte non può risolvere. Emblematico in tal senso è lo sconvolgente (celebre) prologo iniziale di sei minuti, frenetico susseguirsi di piani eterogenei la cui esposizione sfida la persistenza della retina, sequenza (concepita “per” e “da” il cinema) decomponibile nei suoi numerosi elementi soltanto da una tecnologia (il fermo immagine) che ne snaturerebbe lo scopo estetico fondato sullo choc visivo e sulla paralisi emozionale determinata dal suo scorrere vorticoso che indica il pericolo di un “media” non più critico osservatore delle vicende umane ma esso stesso responsabile della bulimia dell’immaginario, testimone di un fallimento totale (evocato dalla pellicola che si brucia o alla fine del film dal nastro che gira a vuoto fino ad accartocciarsi inceppando il proiettore).

Lo scacco emotivo di un’umanità impotente è ciò di cui si nutre “Persona”: Le grida della nostra fede, del nostro dubbio nell’oscurità e nel silenzio – è quanto scritto nel libro che Alma legge a Elisabet – sono una delle più terribili prove della nostra innegabile solitudine e della costante paura che ci possiede”. Le grida che risuonano nel nulla – l’unica parola che Elisabet è in grado di pronunciare – il nulla che avvolge le due donne, il nulla in cui risuona assordante, una volta di più, il silenzio di Dio. (Nicola Pice)


✓ MUSICLETTER.IT © Tutti i diritti riservati - 26 Novembre 2015

MUSICLETTER.IT

Musica, cultura e informazione (dal 2005)