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Recensione: Alfonso De Pietro – Di notte in giorno (2015)

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Inizierei col citare la prima frase del primo brano dal titolo La memoria di cui abbiamo anche un video ufficiale come primo estratto: “Non basta ricordare per non dimenticare…”. E da queste primissime battute, dall’eleganza del pianoforte di Piero Frassi e dal seguire di un ensemble dallo spiccato sapore jazzato che si tirano per inciso le linee guida di un ascolto che, per quanto popolare nei tempi e negli arrangiamenti, è tutt’altro che destinato alla massa, come forse dovrebbe. Musica sociale che lotta contro le mafie armata di buon gusto e che vede il patrocinio dell’Associazione Libera e la prefazione di Don Ciotti. Ecco quindi che il disco di Alfonso De Pietro non può venir consumato in un ascolto normale, scisso dal suo contesto e fermo nel tempo di un giro di disco. Dietro queste dodici canzoni, di cui alcune sono liberi trattamenti musicali ispirati a scritti di eroi come Peppino Impastato, c’è la voce sicura e il gusto di De Pietro.

Musicalmente il disco non incanta né stupisce, bella musica italiana ligia al suo dovere in una forma canzone che, se pur dipinta di jazz e a tratti di funky (molto radi questi tratti, da prendere con le pinze), rispecchia a pieno lo stile nostrano a cui siamo abituati. Passaggi acustici davvero interessanti filologicamente intrecciati con le ballate americane (se non fosse per i fiati) che ricordano talune contaminazioni della nostra discografia anni ’70 e ’80; mi riferisco in particolare a un certo Gianni Morandi piuttosto che a Celentano. E qui cito più di tutti il brano Angeli Custodi. E così via sfogliano una tracklist che richiama sentori e retrogusti di Dalla o Fossati piuttosto che altri. E l’ascolto arriva all’ultima traccia Luna è la notte dove il respiro si fa calmo, il romanticismo prende il sopravvento e il disco si compie. (Alessandro Riva)

Intervista ad Alfonso De Pietro di Alessandro Riva

Un disco di jazz praticamente. Come ti sei approvato a questi arrangiamenti e a questa scrittura?
Più che un disco di jazz, preferisco definirlo un disco acustico “vestito di jazz”, in virtù degli arrangiamenti. Ove necessario, poi, ho lasciato libero sfogo d’improvvisazione ai miei musicisti, che sono certamente dei jazzisti. Ma nella scrittura ho semplicemente seguito la mia formazione e le mie esperienze. Ho assecondato le linee armoniche e melodiche “jazz” che ne scaturivano liberamente, aperte a soluzioni anche inaspettate, ma certamente libere da condizionamenti e, mi auguro, affrancate da costrizioni e costruzioni banali. Ecco, credo che sia questo lo “spirito jazz” che più ho introiettato e che cerco di restituire, in tanti anni di musica: l’aspetto libertario e liberatorio.

Di questi 12 brani a quale sei maggiormente legato? Quale è il più importante secondo te?
Devo dirti che la selezione dei brani da inserire in questo disco, come sempre, ha privilegiato quelli nati, baciati da una particolare ispirazione. Per ognuno di questi potrei raccontarti la genesi e la realizzazione finale. Ogni canzone, dunque, rappresenta un momento importante. Un esempio per tutti. “La canzone di Rita”, che ho scritto di getto, musica e parole, dopo la forte emozione provata in seguito alla partecipazione alla manifestazione di Partanna (TP) nel 2013, quando, dopo 21 anni dalla sua morte, con Libera abbiamo finalmente accompagnato la lapide definitiva sulla tomba della “picciridda” Rita Atria, testimone di giustizia. Piera Aiello, la cognata, che vive sotto regime di protezione, ha cementato questa lapide dopo che la madre di Rita, nel 1992, l’aveva spaccata a martellate, rinnegando la figlia, definita “fimmina lingua longa e amica degli sbirri”.

Non pensi che portare un messaggio alle persone significhi anche veicolarlo con un mezzo assai popolare? Il jazz in questo non è contraddittorio?
Francamente, non mi piace scendere a compromessi con l’orecchiabilità o con la facile fruibilità, se è questo che si vuol intendere per “popolare”. Per me sarebbe contronatura e sarei finto, di plastica. Soprattutto non ho la velleità di veicolare messaggi. Io racconto e canto storie che, spero, possano graffiare l’anima. La prima è la mia a “risentirne”. E ne risento lasciandomi guidare unicamente dalle suggestioni e dall’emotività che un certo genere di parole e di argomenti mi offre per cercare soluzioni armoniche e melodiche naturali, quasi sempre immediate. Sarebbe una forzatura o peggio una “furbizia”, al contrario, proprio la “mediazione”, con la conseguenza di spingerle in una forma “popolare”, per “arrivare”… In questo senso nessuna forma stilistica, se adottata con autenticità, può rischiare di essere contraddittoria. Tra i tanti territori musicali, che la mia curiosità mi ha spinto e mi spinge a frequentare in tutti questi anni di musica, c’è anche il jazz. In questo caso spero di averlo comunque “piegato” ai contenuti, limitando il suo tipico e fisiologico narcisismo.

Ambizioni e obiettivi?
Un’ambizione? Bene, la dichiaro. Portare il mio contributo alla ricostruzione di una canzone d’autore che abbia le radici piantate nella nostra nobile e colta tradizione (De André, De Gregori, Dalla, Fossati, Daniele e tanti altri “padri”) e le foglie nel vento della contaminazione e della contemporaneità che aspetta solo di essere raccontata e cantata, per testimoniare una continua tensione anche verso temi sociali attenti agli ultimi, alle storie dimenticate, alla giustizia, alla libertà. Senza mai mortificare, però, una ricerca musicale seria, non di semplice supporto o commento, ridotta in posizione ancillare rispetto a contenuti così “impegnati”. Una musica altrettanto “importante”. L’obiettivo principale, in tal senso, è continuare a “essere” uno strumento, oltre che a suonarne uno (o più). Nel senso che m’interessa mettermi al servizio di musiche e parole sincere, vere, ispirate, “naturali”. Virtuose, ma anche ricche di “bellezza estetica”, di virtuosismi (perché no?), però mai fine a se stesse. Per cercare di raggiungere l’equilibrio migliore possibile.

“La Memoria”: esiste anche un bel video su YouTube. Che simbologia c’è dietro ai libri levati al cielo?
Grazie! La storyboard che ho scritto per questo video tende a valorizzare una memoria attiva, di un impegno quotidiano basato sulla conoscenza e sulla conseguente scelta di una parte: da che parte stare. E nel video, i ragazzi (tra i 14 e i 18 anni) che hanno frequentato i miei laboratori di teatro-canzone civile nelle scuole, levano al cielo libri “a tema” che raccontano la parte dei martiri della giustizia e della fede quali magistrati, giornalisti, preti e donne e uomini comuni che hanno pagato con la vita per aver fatto, semplicemente, bene il proprio lavoro. Fino in fondo, non piegando mai la testa. È un testimone che raccogliamo, affermando che nel loro nome continuiamo, a testa alta e con la schiena dritta, (e)levando tutti loro a esempio da seguire. Il “la” viene dato da un’agenda rossa (Borsellino) che sollevo per primo, assumendomi la responsabilità di camminare insieme, accanto a loro.

Nel disco hai musicato anche poesie di autori come Peppino Impastato e altri. Come mai queste scelte?
Poesie di Carmelo Calabrò, una di Padre Maurizio Patriciello, “Lunga è la notte” di Impastato… Sì, perché amo la poesia, amo la letteratura. La scrittura “in punta di penna”, che non cede alla retorica assai frequente nei percorsi di un certo cosiddetto “impegno”. E amo soprattutto la poesia che diventa “azione”, per dirla con Pasolini. Quella che ha origine dalla realtà, la canta ed incide nella realtà stessa, ponendosi come rappesentazione non solo estetica, ma anche e soprattutto etica. Forse perché, per dirla con Saba, “non resta che fare poesia onesta”.


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